Voi avete avuto molte e grandi tristezze, che se ne sono andate. E dite che anche quel loro andarsene fu per voi difficile e irritante. Ma vi prego, riflettete se quelle grandi tristezze non siano piuttosto passate attraverso di voi. Se molto in voi non si sia trasformato, se in qualche parte, in qualche punto del vostro essere non vi siate mutato, mentre eravate triste.
Pericolose e maligne sono quelle tristezze soltanto, che si portano tra la gente, per soverchiarle col rumore; come malattie, che vengano trattate superficialmente e in maniera sconsiderata, fanno solo un passo indietro e dopo una breve pausa erompono tanto più paurosamente; e si raccolgono nell'intimo e sono vita, sono vita non vissuta, avvilita, perduta, di cui si può morire.
Ci fosse dato di veder più oltre che non giunga il nostro sapere e un poco più in là dei bastioni del nostro presentimento, forse allora sopporteremmo noi le nostre tristezze con maggior fiducia che le nostre gioie. Che sono esse i momenti, in cui qualcosa di nuovo è entrato in noi, qualcosa di sconosciuto; i nostri sentimenti ammutoliscono in casta timidezza, tutto in noi indietreggia, sorge una calma, e il nuovo, che nessuno conosce, vi sta nel mezzo e tace.
Io credo che quasi tutte le nostre tristezze siano momenti di tensione, che noi risentiamo come paralisi, perche non udiamo più vivere i nostri sentimenti sorpresi. Perché noi siamo soli con la cosa straniera che è entrata in noi; perché quanto ci era confidente e abituale per un momento ci è tolto; perché noi siamo in un trapasso, dove non possiamo fermarci. Perciò anche passa la tristezza; il nuovo in noi, il sopravvenuto, è entrato nel nostro cuore, è penetrato nella sua camera più interna e anche là non è più, - è già nel sangue. E noi non apprendiamo che fosse.
Ci si potrebbe facilmente persuadere che nulla sia accaduto, e pure noi ci siamo trasformati, come si trasforma una casa, in cui sia entrato un ospite. Noi non possiamo dire chi sia entrato, forse non lo sapremo mai, ma molti indizi suggeriscono che il futuro entra in noi in questa maniera per trasformarsi in noi, molto prima che accada. E però è tanto importante essere soli e attenti, quando si è tristi: perche il momento vuoto in apparenza e fisso, in cui il futuro entra in noi, è tanto più vicino alla vita, di quell'altro sonoro e casuale istante in cui esso, come dal di fuori, ci accade. Quanto più calmi, pazienti e aperti noi siamo nella tristezza, tanto più profondo e infallibile entra in noi il nuovo, tanto meglio noi ce lo conquistiamo, tanto più sarà esso nostro destino, e noi ci sentiremo, se un giorno più tardi “accadrà” (cioè da noi uscirà verso gli altri) nel più intimo affini e prossimi a lui.
E questo è necessario. È necessario - e su questo cammino si svolgerà successivamente il nostro sviluppo - che nulla ci accada di estraneo, ma solo quanto da lungo tempo ormai ci appartiene. Si sono già dovuti ripensare rovesciando tanti concetti di movimento, si imparerà anche a poco a poco a riconoscere che quello che noi chiamiamo destino esce dagli uomini, non entra in essi da fuori. Solo perché tanti non assorbirono e trasformarono in se stessi i loro destini, finché vivevano in loro, non riconobbero che cosa usciva da essi; era a loro cosi estraneo ch'essi credettero, nel loro terrore smarrito, che dovesse appunto ora essere entrato in loro, ché giuravano non avere in sé prima ritrovato mai cosa simile. Come a lungo ci si è ingannati sul movimento del sole, cosi ci s'inganna ancora sempre sul movimento dell'avvenire. Il futuro sta fermo (…) ma noi ci moviamo nello spazio infinito. Come dovremmo non sentirne fatica?
Ci si potrebbe facilmente persuadere che nulla sia accaduto, e pure noi ci siamo trasformati, come si trasforma una casa, in cui sia entrato un ospite. Noi non possiamo dire chi sia entrato, forse non lo sapremo mai, ma molti indizi suggeriscono che il futuro entra in noi in questa maniera per trasformarsi in noi, molto prima che accada. E però è tanto importante essere soli e attenti, quando si è tristi: perche il momento vuoto in apparenza e fisso, in cui il futuro entra in noi, è tanto più vicino alla vita, di quell'altro sonoro e casuale istante in cui esso, come dal di fuori, ci accade. Quanto più calmi, pazienti e aperti noi siamo nella tristezza, tanto più profondo e infallibile entra in noi il nuovo, tanto meglio noi ce lo conquistiamo, tanto più sarà esso nostro destino, e noi ci sentiremo, se un giorno più tardi “accadrà” (cioè da noi uscirà verso gli altri) nel più intimo affini e prossimi a lui.
E questo è necessario. È necessario - e su questo cammino si svolgerà successivamente il nostro sviluppo - che nulla ci accada di estraneo, ma solo quanto da lungo tempo ormai ci appartiene. Si sono già dovuti ripensare rovesciando tanti concetti di movimento, si imparerà anche a poco a poco a riconoscere che quello che noi chiamiamo destino esce dagli uomini, non entra in essi da fuori. Solo perché tanti non assorbirono e trasformarono in se stessi i loro destini, finché vivevano in loro, non riconobbero che cosa usciva da essi; era a loro cosi estraneo ch'essi credettero, nel loro terrore smarrito, che dovesse appunto ora essere entrato in loro, ché giuravano non avere in sé prima ritrovato mai cosa simile. Come a lungo ci si è ingannati sul movimento del sole, cosi ci s'inganna ancora sempre sul movimento dell'avvenire. Il futuro sta fermo (…) ma noi ci moviamo nello spazio infinito. Come dovremmo non sentirne fatica?
Rainer Maria Rilke, Lettere a un Giovane Poeta, Adeplhi, 2012