L’uomo infatti é integralmente temporale; le sue rughe, i suoi tessuti, il suo sistema nervoso sono nel tempo, ma non solo: anche i suoi pensieri sul tempo sono a loro volta temporali! O meglio: è l’uomo nella sua totalità a essere il - tempo incarnato, un tempo su due gambe, che va, che viene, e che muore.
Pertanto l’uomo non ha alcuna presa sul tempo, noi non possiamo fare altro che sostituire
al tempo ciò che non e tempo, confonderlo
con quei contabilizzatori sociali che sono gli orologi e i calendari,
confonderlo con le cose che facciamo nel tempo, vale a dire con la storicità e
con gli eventi che la riempiono. I ritmi del
tempo possono accelerarsi per effetto della tecnica, ma la tecnica non é
a sua volta in presa diretta sul tempo, può solo misurare, con i suoi
metronomi, i ritmi del tempo e gli intervalli di tempo della temporalità, cioè
la velocità; essa riduce il tempo alla parte
comprimibile e materializzabile della cronologia, in altre parole durata
scandita dal cronometro.
Anche la luce, benché vertiginosamente rapida, non è onnipresente e impiega un certo tempo a percorrete le immensità cosmiche. La velocità,
per quanto fantastica sia, differisce per natura e interamente dall’istantaneità,
che è ubiquità e atemporalità: tra la velocità della luce e l’istantaneità c’é
ancora un’infinita distanza. Questa frazione di tempo infinitesimale non è
forse il suggello della nostra finitudine? Il tempo è consustanziale al nostro
pensiero, alla nostra esistenza, a tutti i nostri atti, è carne della nostra carne, e
l’essenza invisibile del nostro essere e la quintessenza invisibile della
nostra essenza. La sola cosa che possiamo fare è non tanto strappargli un
segreto - nemmeno una briciola di questo segreto — e neppure pensarlo, ma
piuttosto viverlo e riviverlo inesauribilmente, disperatamente.
Vladimir Jankélévitch - da V. Jankélévitch, B. Berlowitz, Da Qualche Parte nell'incompiuto, Einaudi 2012