mercoledì 16 febbraio 2011

Autobiografia di un Arcangelo - 2

La percezione del tempo mi dislocò tra gli angeli chiamati a muoversi tra il cielo e la terra, tra gli imperscrutabili voleri divini e le ansie degli uomini. Il mio compito, da quel momento, fu annunciare, vigilare, custodire. Per queste funzioni non amavo assumere, come gioiosamente facevano altri miei consimili, figure umane: mi collocavo tra i pensieri degli uomini, negli interstizi delle immagini, negli intervalli che separano un ricordo dal desiderio, un sogno dal risveglio. Ero un frammento temporale di cielo nel movimento della volontà, uno scarto di invisibile libertà nel concatenarsi delle azioni. Da questa posizione - così diversa dal folgorante schierarsi in eserciti e in cori che molti arcangeli prediligevano - seguivo nelle anime prescelte il dispiegarsi quotidiano dei sentimenti: sentivo con allegrezza l'insorgere della gioia, aspettavo con tremore l'onda della disperazione. La mia presenza, tutta inferiore, accompagnava quegli esseri nelle loro giornate, contribuendo a dare forma al desiderio, a far dileguare un'ossessione, a far crollare le resistenze dinanzi a una scelta che si sarebbe rivelata benefica o rasserenante. Ho seguito contadini e uomini d'arme, mercanti e artisti, giovani ardenti d'amore e mendicanti solitari, principi malinconici e saltimbanchi, fanciulle luminose di corporale bellezza e infelici storpiati nelle membra: in tutti era l'implacabile svolgersi del tempo, l'appassire violento delle speranze,   che mi sorprendeva e inquietava, inchiodandomi a una gelida impotenza. Un'impotenza che di caso in caso accresceva il mio distacco   dalla trionfante celestialità alla quale appartenevo, dalla quale provenivo. Insieme a questa spirituale condivisone del declino, si insinuava in me, irresistibile, persino insultante, la persuasione che la condizione umana era imprigionata dentro una legge costante, dentro una necessità: lo scarto tra il desiderio e l'azione, tra il sogno e l'esperienza. Non la pietà prendeva allora posto tra i miei pensieri, ma un disagio forte, un'irrequietudine incontenibile, persino un'ostilità nei confronti della perfezione alla quale ancora sentivo, per una parte del mio essere, di appartenere, sebbene sempre più fievolmente.