mercoledì 10 aprile 2013

Punti di vista

Gli esseri umani sono cose di dimensioni variabili.

I più piccoli lo sono talmente che se altri esseri umani più grandi non li portassero dentro un piccolo veicolo, non tarderebbero a essere calpestati.
I più alti raramente superano i 200 centimetri di lunghezza. Un dato sorprendente è che quando giacciono distesi misurano sempre stranamente lo stesso.

Alcuni hanno baffi, altri barba e baffi. Quasi tutti hanno due occhi, che possono essere situati nella parte anteriore o posteriore della testa, secondo da che parte li si guarda.

Deambulando si spostano da dietro in avanti, per la qual cosa devono controbilanciare il movimento delle gambe con un vigoroso sbracciamento. I più frettolosi rinforzano lo sbracciamento mediante borse di pelle o di plastica o valigette denominate Samsonite, fatte di materiale proveniente da un altro pianeta.

Il sistema di spostamento delle automobili (quattro ruote accoppiate piene d’aria fetida) è più razionale, e permette di raggiungere velocità superiori. Non devo volare né spostarmi a testa in giù se non voglio esser preso per un eccentrico.

Nota bene: mantenere sempre in contatto col terreno un piede – uno qualsiasi dei due – o l’organo esteriore denominato culo.


Da Eduardo Mendoza “Nessuna notiza di Gurb”, Feltrinelli 2003



venerdì 5 aprile 2013

Arabeschi


La noia è un caldo panno grigio, rivestito all’interno di una fodera di seta dai più smaglianti colori. In questo panno ci avvolgiamo quando sogniamo. Allora siamo di casa negli arabeschi della fodera. Ma sotto quel panno il dormiente sembra grigio e annoiato. E quando poi al risveglio vuol narrare quel che ha sognato, non comunica in genere che questa noia. E chi mai potrebbe infatti con un gesto rivoltare la fodera del tempo? Eppure ricordare dei sogni non significa altro che questo.
W. Benjamin

mercoledì 3 aprile 2013

Bramosia di futuro


Tale era l’abbondanza di frutta, specialmente lamponi, fragole, more e mirtilli, che da fine giugno a metà agosto la casa padronale si tramutava decisamente in una fabbrica, dove da mane a sera s’effettuava la lavorazione della frutta. Perfino nelle stanze di gala, tutti i tavoli erano carichi di mucchi di frutti; attorno sedevano le ancelle a mondarli, suddividendoli per sorta; riuscivano appena a venire a capo d’un mucchio, che già un altro gli dava il cambio.

Al giorno d’oggi, questa sola operazione costerebbe di per sé un sacco di soldi. A quel tempo, invece, all’ombra di un enorme tiglio centenario, sotto la diretta sorveglianza di mia madre, su mattoni sistemati a forma di quadrangolo, si cuoceva la marmellata, per cui venivano scelti i frutti più grossi e le bacche più belle. Il resto veniva utilizzato per i liquori, gli elisir, gli estratti, ecc.

Da notare che frutti e bacche fresche venivano consumati con discrezione persino dai padroni, quasi nel timore che non ce ne fosse abbastanza per le provviste. Alle «servacce» poi non se ne dava affatto (ricordo la preoccupazione di mia madre, al momento della raccolta dei lamponi «che quelle villanzone non abbiano a rimpinzarsene!»). E anche quando di frutta ce n’era, come si dice, a bizzeffe, bisognava immancabilmente aspettare che, a causa del prolungato soggiorno nelle cantine, cominciasse a muffire. Quella massa di leccornie attirava nelle stanze orde innumeri di mosche, che avvelenavano decisamente l’esistenza.

A cosa servissero quegli ammassi, non l’ho mai potuto capire. Il fenomeno può essere definito col termine inusitato di «bramosia del futuro». Grazie ad essa, anche quando una persona ha sotto gli occhi un’intera montagna di cibarie, le sembra sempre poca cosa. Il ventre umano ha dei limiti, ma l’avida immaginazione gli attribuisce misure incolmabili, e in pari tempo minacciose prospettive si profilano all’orizzonte.

Nel corso dell’anno le provviste venivano consumate con parsimonia, con avarizia quasi. Sebbene non fosse ancora giunta, si pensava che «l’ora» sarebbe suonata sicuramente e in quel momento si sarebbe spalancato un abisso misterioso che senza posa avrebbe inghiottito tutto quello che si era accumulato. Di tanto in tanto si procedeva a una revisione delle cantine e delle dispense, e sempre risultava che la metà o quasi delle provviste era andata a male.

Michail Saltykov-Ščedrin, Fatti d'altri tempi nel distretto di Pošechone, Macerata, Quodlibet 2013, pp. 20.21]



giovedì 28 marzo 2013

Ascoltare una voce che racconta


Ore 13.30. In un bar di Borgoforte dove abbiamo mangiato (...)

Rari i clienti, e il padrone si messo a raccontarci la storia di una contessa che s'era sposata con un generale dei corazzieri, “al tempo della prima guerra”, e venendo da Milano i due hanno avuto un “cattivo incidente d’auto” dove lui è morto, e dopo lei non ha mai voluto risposarsi. E da allora non ha mai voluto vendere i “prodotti da frutto” della campagna di suo marito; e i commercianti vanno a chiedere di comprare le sue pere e mele e noci, ma lei li cacia via “anche a male parole”. Però se ci sono dei bambini che vanno a rubargliele sugli alberi “lei stia pur sicuro che se la contessa li vede, si nasconde a guardarli e non dice niente, anzi è contenta".

Ascoltare una voce che racconta fa bene, ti toglie dall’astrattezza di quando sei a casa credendo di aver capito qualcosa “in generale” ed è come seguire gli argini di un fiume dove scorre qualcosa che non può essere capito astrattamente.


Gianni Celati, Verso la Foce, Feltrinelli 2011 pag. 57

venerdì 15 marzo 2013

What’s in a name?



What’s in a name? La struggente domanda di Giulietta risuona più attuale che mai dal momento in cui il nome di Francesco è stato pronunciato dalla Loggia delle Benedizioni di San Pietro come quello assunto dal nuovo papa. 

È un nome difficile. È un manifesto: riformerò, farò pulizia, diraderò la tenebra, puntellerò la chiesa che crolla, come Francesco fa nel celebre affresco di Giotto nella Basilica superiore di Assisi. 

Può essere uno slogan, o peggio uno di quei beffardi rovesciamenti cui ci ha abituato il newspeak contemporaneo: la Casa delle Libertà, il Ministero dell’Armonia. Ma Francesco non è comunque un nome che si possa portare in modo indifferente. È un pegno. Una promessa. 

In quelle poche sillabe parla un’idea che è stata centrale per la cultura di questo paese e per quella dell’intero Occidente: l’idea che il mondo, la vita umana, la pace, la giustizia sociale, sono doni straordinari che siamo chiamati tutti a custodire, a difendere, a diffondere. È una responsabilità umana e storica, non solo religiosa. Ed è questo radicamento nella vicenda terrena, questa celebrazione della vita pienamente e giustamente vissuta ciò che essenzialmente c’è nel nome Francesco. 

E in questo nome, da oggi, dovremo necessariamente misurare i passi del nuovo capo della Chiesa cattolica.

Stefano Chiodi da “Cosa c’è in un Nome” www.doppiozero.com

Clessidra filosofica di marzo. Il tema del mese è "Sfruttamento".


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Ti aspettiamo allo Spazio dell'anima lunedì  18 marzo dalle 20,30 per iniziare puntualmente alle 21,00.

Prenota via mail (info@spazidellanima.it) la tua partecipazione all’evento e anticipa in poche righe la natura del tuo intervento.

martedì 12 marzo 2013

Il Principe e il Mago

C’era una volta un giovane principe che credeva in tutte le cose tranne in tre. Non credeva nelle principesse, non credeva nelle isole, non credeva in Dio.


Il re suo padre gli diceva che queste cose non esistono. Siccome nei dominii paterni non vi erano né principesse né isole né alcun segno di Dio, il principe credeva al padre.


Ma un bel giorno il principe lasciò il palazzo reale e giunse al paese vicino. Quivi, con sua grande meraviglia, da ogni punto della costa vide delle isole e, su queste isole, strane e inquietanti creature cui non si arrischiò di dare un nome. Stava cercando un battello, quando lungo la spiaggia gli si avvicinò un uomo in abito da sera, di gran gala.

“Sono vere isole, quelle?”, chiese il giovane principe.

“Certo, sono vere isole”, rispose l’uomo in abito da sera.

“E quelle strane e inquietanti creature?”.

“Sono tutte genuine ed autentiche principesse”.

“Ma allora anche Dio deve esistere!”, gridò il principe.

“Sono io Dio”, rispose l’uomo in abito da sera con un inchino.

Il giovane principe tornò a casa al più presto. “Eccoti dunque di ritorno”, disse il re suo padre. “Ho visto le isole, ho visto le principesse, ho visto Dio”, disse il principe in tono di rimprovero.


Il re rimase impassibile. “No esistono né vere isole né vere principesse né un vero Dio”.

“Ma è ciò che ho visto!”

“Dimmi com’era vestito Dio”.

“Dio era in abito da sera, di gala”.

“Portava le maniche della giacca rimboccate?”


Il principe ricordava che erano rimboccate.


Il re rise. “E’ la divisa del mago. Sei stato ingannato”.


A queste parole il principe tornò nel paese vicino e si recò sulla stessa spiaggia dove s’imbatté nell’uomo in abito da sera.


“Il re mio padre mi ha detto chi sei” disse indignato.


“L’altra volta mi hai ingannato, ma non mi ingannerai ancora. Ora so che quelle non sono vere isole né vere principesse, perché tu sei un mago”. L’uomo della spiaggia sorrise.


“Sei tu che t’inganni ragazzo mio. Nel regno di tuo padre vi sono molte isole e molte principesse. Ma tu sei sotto l’incantesimo di tuo padre e non le puoi vedere”.


Il principe tornò a casa pensieroso. Quando vide il padre, lo fissò negli occhi.


“Padre, è vero che tu non sei un vero re ma un mago?” Il re sorrise e si rimboccò le maniche.

“Sì, figlio mio, sono solo un mago”.


“Allora l’uomo della spiaggia era Dio”


“L’uomo della spiaggia era un altro mago”.


“Devo sapere la verità, la verità dietro la magia”.


“Non vi è alcuna verità, dietro la magia”, disse il re.


Il principe era in preda alla tristezza. Disse: “ Mi ucciderò”.


Il re, per magia fece comparire la morte. Dalla porta la morte fece un cenno al principe. Il principe rabbrividì. Ricordò le isole belle ma irreali e le belle ma irreali principesse. “Va bene”, disse,“riesco a sopportarlo”.


“Vedi, figlio mio”, disse il re, “adesso anche tu stai diventando un mago.


Tratto da The Magus di John Fowles