lunedì 4 luglio 2011

Un uomo libero

Un uomo libero, scrive Brodskij, quando è sconfitto, non dà la colpa a nessuno».

E viene in mente il discorso che il poeta Aleksanrd Blok aveva fatto in occasione di non so più che anniversario della morte di Puškin, causata dal duello di Puškin con D’Anthès, quando Blok aveva detto che Puškin non era morto per il proiettile di D’Anthès, era morto per mancanza d’aria.

Ecco, io, sarò molto pessimista, da un lato, ma noi c’è il rischio che finiamo così, che moriam soffocati, mi sembra.

A me, da un lato, delle volte mi vien da pensare che noi siamo tutti impastati di sonno, non siam più capaci di fare niente, neanche di aver dei pensieri nostri, o di distinguere i nostri dagli altri, e che anche se ci riuscissimo, con un gran sforzo, per un attimo, sarebbe probabilmente inutile. Cioè il mondo comunque andrebbe per conto suo e noi non avremmo nessuna possibilità non solo di mettere in discussione l’andiamo del mondo, neanche di dare il minimo fastidio. Ecco. E allora uno potrebbe pensare, e allora non bisogna far niente? No. A me, in questi casi, di solito, quando penso queste cose, mi torna in mente un passo del Cyrano di Bergerac, di Rostand.

Cosa dite? È inutile? Lo so. Ma non ci si batte nella speranza del successo. So bene che alla fine mi metterete sotto; non importa. Io mi batto, io mi batto, io mi batto.

E se poi devo perdere, come sarà, probabilmente, mi sembra che abbia ragione Brodksij, quando dice, nel 1987, in un discorso tenuto a Vienna che si intitola La condizione che noi chiamiamo Esilio: «Comunque, se vogliamo avere una parte più importante, la parte dell’uomo libero, allora dobbiamo essere capaci di accettare, o almeno di imitare, il modo in cui un uomo libero è sconfitto. Un uomo libero, scrive Brodskij, quando è sconfitto, non dà la colpa a nessuno».
E in un altro discorso, celebre, il discorso in occasione del Nobel per la letteratura che gli hanno assegnato, Brodskij scrive «Il compito di un uomo, si tratti di uno scrittore o di un lettore, sta prima di tutto nel vivere una vita propria, di cui sia padrone, non già una vita imposta o prescritta dall’esterno, per quanto nobile possa essere all’apparenza».

La lingua e, presumibilmente, la letteratura, sono cose più antiche e inevitabili, più durevoli di qualsiasi forma di organizzazione sociale. Il disgusto, l’ironia o l’indifferenza che la letteratura esprime spesso nei confronti dello Stato sono in sostanza la reazione del permanente – meglio ancora, dell’infinito – nei confronti del provvisorio, del finito. Un sistema politico, una forma di organizzazione sociale, è per definizione una forma del passato remoto che vorrebbe imporsi sul presente (e spesso anche sul futuro); e chi ha fatto della lingua la propria professione è l’ultimo che possa permettersi il lusso di dimenticarlo. Il vero pericolo per uno scrittore non è tanto la possibilità (e non di rado la realtà) di una persecuzione da parte dello Stato, quanto la possibiltà di farsi ipnotizzare dalla fisionomia dello Stato, una fisionomia che può essere mostruosa o può cambiare verso il meglio ma è sempre provvisoria. La filosofia dello Stato, la sua etica, per non dire la sua estetica, scrive Brodskij, sono sempre ieri. La lingua e la lettatura sono sempre oggi e spesso domani. Ai tempi di Pushkin, Pushkin veniva considerato uno strampalato, uno a cui piacevan e donne, ero oggetto di scherno, da parte dei suoi stessi amici, lo zar gli aveva dato una onorificenza che si dava di solito ai ragazzi di quindici anni, e lo voleva obbligare a andare in giro con quell’uniforme lì, da quindicenne. Ecco oggi nessuno in Russia si ricorda, per fortuna di Nicola I, i documenti ufficiali firmati da Nicola I, la falsità delle sue convinzioni, l’arbitrarietà del suo governo, il suo amore per le caserme e per le punizioni corporali, la sua refrattarietà alla cultura; sono cose consegnate agli storici, sono: ieri, sono: passato remoto.
Ma quasi tutti, in Russia, dal muratore al professore universitario, oggi conoscono, citano, leggono, ricordano, le parole di Puskin, che rivivono sulle loro labbra, pensano, con le parole di Puskin, che sono parole pesanti come le pietre ed erano, e sono: domani; erano e sono: futuro.
Qualcuno di voi si ricorda chi governava in Spagna quando Cervantes scriveva Il don chisciotte? O a Venezia quando Goldoni scriveva La locandiera? O a Londra quando Shakespeare scriveva L’Amleto? O ad Amsterdam quando Erasmo da Rotterdam scriveva L’elogio della Follia?
Io non me lo ricordo. E mi sembra che questa regola, che è evidente per il passato, valga anche per il presente.

Quelli che si illudono di governarci, siano essi dei dittatori o dei presidenti democraticamente eletti, se noi facciamo quella scelta lì di cui parlava Brodskij, la scelta di vivere una vista nostra, non hanno su di noi nessun potere.
Può darsi che saremo sconfitti, ma, se cercheremo di fare la parte degli uomini liberi, come dice Brodskij, non sarà colpa loro, sarà colpa nostra.

Perché la nostra anima immortale, se c’è, come fanno a tenere prigioniera la nostra anima immortale?

I governi, a pensarci, sono piccoli, e non hanno nessuna possibilità di diventare grandi; noi, siamo piccoli anche noi, ma abbiamo la possibilità di diventare grandi. Ho finito.

Paolo Nori, Pubblici discorsi, www. paolonori.it