martedì 17 dicembre 2013

Parole gelate


Quante suggestioni, quante emozioni pervengono a chi prende sul serio le metafore e non le considera semplici giochi linguistici o peggio meri ornamenti di stile dai quali si può uscire senza difficoltà. E quante nuove letture di un fenomeno vecchio come il silenzio proposte dalla benemerita quanto bizzarra Accademia del Silenzio per un mondo sempre più pieno di voci suoni e rumori.
Non si può tuttavia, nell’edificare strutture e nell’intuire parallelismi, non ricordare il fatto che l’immaginazione metaforica conosce ragioni che la ragione non conosce, ed è, come vedremo, refrattaria a esperimenti dirimenti che le vogliano far dire sempre inesorabilmente una cosa sola.

Ben lo si vedrà nel caso del silenzio, il silenzio delle voci in particolare (il “tacere”), per il quale inseriamo qui un nuovo tassello al nostro mosaico metaforico: voce e silenzio come acqua e ghiaccio. 

Ma ascoltiamo prima la meravigliosa storia delle parole gelate, accennata già in un aneddoto di Plutarco, presente nel Cortigiano del Castiglione, ma sviluppata per esteso soltanto nel poema francese del cinquecento Gargantua e Pantagruele di François Rabelais. La storia racconta così: Pantagruele e compagni, trovandosi in alto mare, credono di udire voci di persone che parlano in aria, ma pur sforzando gli sguardi, non vedono nessuno. Prestando attenzione, riescono a riconoscere intere parole e frasi. Ricordando la (presunta) dottrina di Platone sulle parole “le quali in certi paesi, nel tempo del più forte inverno, allorché vengono proferite, gelano e ghiacciano al freddo dell’aria e non sono sentite”, Pantagruele e soci si rendono conto allora di trovarsi nel posto dove le parole si erano gelate e che in quel momento, per effetto della bella stagione, disgelavano. Parole gelate che Pantagruele gettava ai compagni in forma di confetti perlati di vari colori, azzurri, neri, dorati: scaldatesi nelle mani, le parole-confetto “fondevano come neve” trasformandosi in suoni.

Siamo di fronte a una suggestiva trasposizione letteraria dell’idea che la parola, fluida, scorre, mentre mentre il silenzio, di ghiaccio, racchiude in un blocco compatto e immobile, le parole gelate, talvolta “troppo gelate per sciogliersi al sole”. Così, come ascoltando e cantando mille volte La guerra di Piero di de Andrè non ci siamo mai interrogati del perché quelle parole strette nella bocca non potessero sciogliersi, dal momento che lo capivamo e lo accettavamo e basta, così non staremo a chiederci qui se il silenzio è “veramente” di ghiaccio o di pietra e se si può rompere, spezzare, frantumare e “perché”. Se nessuno ce lo chiede infatti, la risposta la sappiamo, ma se qualcuno ce lo chiede, non siamo in grado di dargliela.

Francesca Rigotti, Metafore del Silenzio, Mimesis/Accademia del Silenzio, Milano-Udine 2013

giovedì 5 dicembre 2013

Il potere delle parole


Mi ricordo che una sera, quando ormai era sicuro che il Grado Zero sarebbe stato pubblicato da Seuil, camminando lungo il boulevard Saint-Michel arrossii da solo al pensiero che il libro non potesse più tornare indietro. 

Questo sentimento di panico mi prende ancor oggi, dopo aver scritto certi testi (non parlo neanche della mia ripugnanza, che è in fin dei conti una paura, a rileggere i miei libri passati): tutto d’un colpo il potere delle parole mi appare esorbitante, la loro responsabilità insostenibile, mi sento troppo debole dinanzi alla mia stessa scrittura.


R. Barthes, Autopresentazione in: a cura di G. Marrone, Scritti. Società, testo, comunicazione, Einaudi, Torino 1998.


martedì 3 dicembre 2013

la centralità della questione morale

La questione morale è la questione, argomenta Roberta De Monticelli, filosofa di statura europea con anni di insegnamento a Ginevra e ora a Milano al San Raffaele, nel suo nuovo libro (La questione morale, Raffaello Cortina).

Sostenendo che la morale non è un' applicazione secondaria ma il punto da cui tutto dipende, l´autrice si pone in pieno contrasto col pensiero dominante in Italia, che concepisce la morale come traduzione pratica di un primato assegnato ad altro, a una dimensione vuoi politica, religiosa, economica, scientifica, teoretica.

Chi assegna il primato alla morale può stare sicuro oggi in Italia di ricevere l' antipatica etichetta di «moralista», sinonimo nel linguaggio comune di persona noiosa e pedante, incapace di fare i conti con la vita concreta. Contro questo cinismo che conosce solo la logica del potere, De Monticelli scrive pagine di vera passione intellettuale attaccando il potere politico («l'interesse affaristico che si fa partito e prostituisce il nome di libertà»), mediatico («facce patibolari»), ecclesiastico («nichilismo morale»), intellettuale («disprezzo ardente per tutto ciò che è comune»).

Arriva anche alla piaga più dolorosa: «Una sorprendente maggioranza degli italiani che approva, sostiene e nutre» tale logica del potere.

Alla denuncia segue però una proposta costruttiva («tornare a respirare»), dove lo scetticismo pratico viene confutato proprio in base al suo punto forte, cioè il freddo utilizzo della ragione, perché esercizio della ragione ed esperienza dei valori sono strettamente legati: «Alla base della logica c´è l´etica… alla base dell´etica c´è la logica».

Ritrovandomi pienamente d´accordo con la mia illustre collega, intendo onorare il suo pensiero approfondendo il nodo radicale del nostro Paese, cioè la «sorprendente maggioranza di italiani che approva, sostiene e nutre» lo scollamento tra etica e politica. Il problema è politico nel senso radicale del termine, riguarda cioè la raccolta del consenso. Come si raccoglie il consenso?
Giocando sulle passioni e sugli interessi, quasi per nulla sul senso di giustizia (a meno di farlo diventare a sua volta una passione e un interesse, trasformando così però la giustizia in iniquo giustizialismo). Da qui una sorta di primordiale conflitto di interessi: da un lato la morale che vive della solitudine della coscienza perché la vita ci mostra che sollevare problemi morali nel nome della coscienza significa spesso rimanere soli; dall´altro la politica che non può permettersi la solitudine. Da un lato la morale che si gioca in una impolitica solitudine, dall´altro la politica che si gioca nella capacità di raccogliere il consenso, operazione eminentemente sociale e quindi basata di necessità sugli interessi e le passioni (rimando d´obbligo il grosso animale della Repubblica di Platone e le indimenticabili pagine di Simone Weil al riguardo). La coscienza impone di essere giusti, ma l´essere giusti non paga in termini di fascino sociale e di raccolta del consenso. In particolare non paga in Italia, dove gli elettori da anni premiano un uomo che sanno bene non essere lo specchio della morale (ma è ricco, fortunato, abile, "tanto simpatico").

La questione morale quindi, politicamente intesa, è altamente drammatica. Il problema che essa pone si chiama traducibilità dell´etica a livello politico, o meglio non-traducibilità. Fate una campagna elettorale all´insegna della giustizia e del rispetto e sarete ricompensati con il minimo dei voti. È innegabile quanto scrive De Monticelli: «L´imbarbarimento morale e civile si combatte risvegliando le coscienze alla serietà dell´esperienza morale». Ma purtroppo è altrettanto innegabile che una raccolta del consenso politico oggi in Italia sulla base della serietà dell´esperienza morale è destinata a non oltrepassare la soglia di sbarramento: con quel programma lì si entra in monastero, non nel Parlamento italiano.

Il problema non è etico, è fisico, di quella fisica della politica che Simone Weil attribuiva a
Machiavelli. Ovvero: perché l´aggregazione sociale non avviene nel nome della giustizia e della morale, ma degli interessi e delle passioni, e quindi molto spesso a scapito della giustizia e della morale?

Di fronte a questo immenso problema, qui mi limito a dire che a mio avviso lo si può affrontare solo mediante i partiti e i professionisti della politica (la cui importanza vitale appare in particolare oggi, con le nostre classi dirigenti quasi del tutto prive di veri professionisti della politica). Il partito politico, nella misura in cui è veramente tale e non un semplice cartello elettorale, media gli interessi e le passioni della moltitudine attraverso un progetto più ampio, rivolto al bene comune. Il partito politico è il luogo in cui gli interessi e le passioni dei singoli vengono veicolati al servizio di un progetto più ampio, lo stato. Senza la mediazione dei partiti si ha il corto circuito tra leader e interessi e passioni della moltitudine, ovvero il populismo. Oppure l´altro estremo, il moralismo, che non vede l´inspiegabile ma reale distanza tra la morale e la politica e crea tra le due un impossibile passaggio diretto, finendo per generare costrizioni e violenza, il contrario della morale.


Occorre coltivare insieme il primato della morale e il richiamo della dura realtà. Una società (e prima ancora una persona) è matura quando ospita dentro di sé il gioco di queste due forze, quando sa porre il primato dell´etica e quando sa mediarlo con l´opacità del reale. E al riguardo il ruolo dei partiti e dei veri politici è insostituibile.

Vito Mancuso in “la Repubblica” dell'11 dicembre 2010

giovedì 28 novembre 2013

Milano e l'Italia (rileggere la storia)


La nazione italiana esiste dal medioevo, precede addirittura il formarsi della nazione tedesca, francese, spagnola, britannica. La lingua parlata oggi in Italia assomiglia a quella di Dante come nessuna lingua europea assomiglia al suo progenitore del XIII o XIV secolo. E ha secoli di storia non solo la nazione, ma anche la coscienza di essa da parte degli spiriti più illuminati: basta rileggere Dante, Petrarca, poi Machiavelli.

La peculiarità della storia italiana non è la nascita recente della nazione, è la combinazione di una nazione precoce e di uno Stato tardivo; è il fatto che per tanti secoli si sia avuta l'una senza l'altro e che l'assenza dello Stato unitario non abbia impedito la presenza della nazione.



La Lombardia è la regione più ricca dell'Italia; di questa, Milano è considerata la capitale economica e si considera la capitale morale. Erano 'milanesi', di nascita o di adozione, alcuni degli spiriti più illuminati del Sette e Ottocento: Romagnosi e Manzoni, Casati e Cattaneo, Verdi e Rosmini. Nello stesso tempo, la Lombardia è l'unica regione della penisola che, allorché si fece l'unità d'Italia, non era da secoli sede di uno Stato indipendente. Torino, Napoli, Venezia, Firenze, Roma erano capitali, Milano no. Essere capitale significa possedere e sviluppare nel territorio circostante una cultura e una coscienza dello Stato, ospitare istituzioni politiche e amministrative, formare classi dirigenti pubbliche e – per i privati – interagire con esse.

Forse per questi motivi, l'atteggiamento di Milano verso lo Stato è da tempo ambivalente: nostalgia e desiderio di Stato, ma anche senso di estraneità e visione immatura della sua funzione. L'impegno civico si è rivolto più alle istituzioni municipali o regionali che a quelle nazionali. L'insofferenza per le carenze dello Stato, per l'inefficienza della sua amministrazione si è tradotta non in impegno riformatore, ma in ostilità allo Stato stesso o addirittura nell'idea semplicistica che 'se al volante ci fossimo noi' (noi milanesi, noi imprenditori) la macchina dello Stato allora sì che funzionerebbe. 

Per il vero, le tre 'marce su Roma' partite da Milano nel secolo passato per mettere un leader politico 'decisionista' alla guida del Paese hanno avuto effetti piuttosto distruttivi che costruttivi per lo Stato. L'affermarsi del federalismo come tema di dibattito nazionale e la sua iscrizione nel programma di riforme della Repubblica sono stati finora una grande occasione mancata per le élites del Nord. Il federalismo era per la classe dirigente e imprenditoriale milanese una via naturale per assumere la guida di un'azione di riforma e rafforzamento dello Stato e della nazione, e per esercitare una responsabilità nazionale. Poteva rianimare la grande tradizione di Carlo Cattaneo, saldarsi col disegno di una federazione europea, trasformarsi in un vero progetto di riforma dello Stato nazionale, promuovere un impegno delle classi dirigenti meridionali coerente con gli ingenti trasferimenti dal Nord di risorse operati dalla politica meridionalistica.

Invece, il federalismo è divenuto la parola d'ordine di una formazione politica abile ma rozza, che fa appello senza alcuno scrupolo, incoraggiandoli, agli atteggiamenti anti-Stato, anti-nazione, xenofobi, tribali della parte più incolta di alcune regioni del Nord, particolarmente quelle prive di storia e tradizione di tipo statuale. Le patologie dell'Italia come Stato e l'atteggiamento verso lo Stato della sua città più ricca, più evoluta e più aperta internazionalmente, sono due fenomeni complementari. 

Le influenze negative sono andate nei due sensi e invece di correggersi vicendevolmente si sono purtroppo rafforzate l'una con l'altra. È perciò del tutto impensabile che lo Stato italiano possa guarire dei suoi mali senza il contributo determinante di Milano.

Tommaso Padoa Schioppa

da una lettera del  settembre 2009 a Franco Continolo (Associazione Impresa Domani), citata in Franco Continolo - Milano "clef d'Italie" - Il rapporto di Milano con lo Stato - Edizione Lampi di stampa, Milano, 2012

lunedì 25 novembre 2013

Tavoli


Non poteva esserci immagine più eloquente di questa fotografia per descrivere il tavolo di Giulio Paolini: una visione perfettamente prospettica, con il punto di fuga centrale, sottolineato dalle linee della lampada e dei termosifoni, che trascina vertiginosamente il nostro sguardo al centro del tavolo. Come in Disegno geometrico, la sua prima opera da cui derivano tutte le successive, la squadratura geometrica rappresenta, o meglio “presenta”, il quadro che contiene tutti i possibili quadri. A ben guardare la foto, la squadratura e la visione prospettica sono presenti anche nei disegni appoggiati in ordine sparso sul piano di lavoro, come a voler suggerire un rispecchiamento, una doublure tautologica del nostro guardare che raddoppia lo spazio reale nello spazio rappresentato.

Lo scrittore, dice Italo Calvino nella sua introduzione al primo libro di Paolini, Idem, ammira molto il pittore nel suo sforzo per arrivare a un’impersonalità assoluta, ma lo fa comunque sempre attraverso un accenno all’autobiografia, all’autoritratto. Anche qui la presenza del pittore si percepisce dalla seggiola lasciata vuota, in bilico tra l’esserci e il non esserci, in quel frammento sospeso di tempo e di spazio che riempie il dubbio di Un autore che credeva di esistere.

Ma il pittore è anche ironico e, con pudore, tende a non prendersi troppo sul serio, si sente un po’ Buster Keaton perso nella contemplazione delle stelle, o meglio come uno spettatore della vita e del mondo che osserva le opere di un museo o il paesaggio fuori dalla finestra, come sembrano suggerirci le immagini che come indizi sono raccolte sul suo leggio.

Discretamente e in silenzio, la regola e la squadra sono poggiati lì come per caso, sul lato del tavolo, strumenti del mestiere pronti ad un nuovo tentativo del pittore di affermare quel che Calvino aveva definito una “totalità a cui nulla si può aggiungere e insieme potenzialità che implica tutto il dipingibile”.



Dal 29 novembre 2013 al 9 marzo 2014 il MACRO presenta la mostra Giulio Paolini. Essere o non essere, prodotta con la Whitechapel Gallery di Londra, dove proseguirà in una versione ampliata nel luglio 2014.

martedì 19 novembre 2013

Cambiare le cose


Buongiorno.

Grazie dell’invito. Io mi chiamo Paolo Nori, sono di Parma, abito a Casalecchio di Reno, vicino a Bologna, e scrivo dei libri, dei romanzi, prevalentemente, ma anche dei discorsi, e oggi mi hanno chiesto di scrivere un piccolo discorso che abbia come tema il tema di questo incontro che chiude la festa di Left, che è Le cose si cambiano, cambiandole.

Ecco, Left è una rivista politica, quelli che parteciperanno al dibattito son tutte persone che, in diversi modi, sono tutti, come di dice, attivi in politica, e noi siamo abituati a pensare che la politica sia il posto dove, per antonomasia, si cambian le cose, e mi vengono in mente due cose, mia nonna, che, quando io mi son laureato a lei le sembrava una cosa così grande, il fatto che mi fossi laureato, le sembrava che io fossi diventato così bravo, laureandomi, che mi diceva che senz’altro sarei andato in parlamento e io le dicevo No nonna, farò poi dell’altro, e infatti è andata così, ho poi fatto dell’altro, e la seconda cosa che mi viene in mente è Pietro Nenni, che, come si sa, quando i socialisti sono entrati per la prima volta al governo e gli hanno chiesto cosa succedeva nella stanza dei bottoni lui ha detto che, entrando al governo, lui si era accorto che, nella stanza dei bottoni, non c’eran bottoni e io, adesso, una cosa che vorrei chiedere, a quelli che parteciperanno al dibattito dopo, cioè Pippo Civati, Giulio Cavalli, Adriano Zaccagnini,Mirko Tutino, Paola Natalicchio, Giovanni Tizian, che ciascuno dal suo punto di osservazione ne sanno molto più di me, volevo chiedergli se ce li hanno messi, i bottoni, nella stanza dei bottoni, perché io, l’impressione che ho, di politica io ne so molto poco ma se il motivo per cui vale la pena di fare politica è cambiare le cose, io vorrei capire in che senso vi sembra che si possano cambiare le cose.

Allora, io, come ho detto, ne capisco poco, ma per quel poco che ne capisco, un grande libro politico è un libro di Tolstoj che si intitola Che fare? e è un libro che racconta cosa succede a Tolstoj quando si accorge che al mondo ci sono un sacco di poveri, e si mette in testa di provare a aiutarli.

Comincia a dargli dei soldi, ma si accorge che questi soldi, loro, li bevono, in Russia bevono, hanno questa abitudine che bevono e le cose, dopo un po’, Tolstoj, si accorge che non sono cambiate e allora, non se la prende con le cose, né se la prende con quelli che bevono, ma a un certo momento si chiede, dentro il suo libro: Chi sono io, io che voglio aiutare gli uomini? Voglio aiutarli, e mi alzo a mezzogiorno, dopo un’interminabile partita di whist, infiacchito, molle, bisognoso dei servigi e dell’aiuto di centinaia di persone; e vengo ad aiutare – chi poi? Uomini che si alzano alle cinque; che dormono su tavole, che mangiano pane e cavoli, che sanno arare, falciare, immanicare la scure, squadrare, aggiogare cucire; uomini che per padronanza di sé, per forza, per abilità, per temperanza, valgono cento volte più di me, e io voglio aiutarli! Cosa altro, se non vergogna, posso provare quando entro in rapporto con loro? Tutta la mia vita passa così: mangio, parlo, ascolto; mangio, scrivo e leggo, cioè ancora parlo e ascolto; mangio, gioco, mangio, di nuovo parlo, e ascolto, mangio e di nuovo vado a dormire, e così ogni giorno, e non posso e non so fare altro. E perché possa permettermi di fare tutto questo, occorre che dalla mattina alla sera lavorino per me il portiere, l’inserviente, la cuciniera, il cuoco, il lacchè, il cocchiere, la lavandaia; per non parlare degli operai necessari a produrre gli oggetti di cui questi cocchieri, cuochi, lacchè hanno bisogno per lavorare per me: martelli, botti, spazzole, vasellame, legname, carne di bue. Ognuno di loro lavora duramente tutto il giorno e tutti i giorni perché io possa parlare, mangiare, dormire; e proprio io, questo individuo gramo, ho immaginato di poter aiutare gli altri, quegli stessi uomini che mi nutrono.

Non è straordinario che io non abbia aiutato nessuno e che abbia provato vergogna; la cosa più straordinaria è che mi possa essere venuta in mente un’idea tanto assurda scriveva Tolstoj nel 1886 e a me vien da pensare, ogni volta che penso a questo passaggio, che se lui, Tolstoj, che era Tolstoj, sapeva di non esser capace di fare niente, a me mi viene da chiedermi, come possiamo noi, che non siamo Tolstoj, pensare di essere capaci di fare qualcosa? Io, parlo per me, mi sento ridicolo, a pensare così, e mi viene da chiedermi Non siamo tutti ridicoli, noi, se pensiamo di esser capaci di fare qualcosa? Cioè che magari siam capaci, di farla, io per esempio, nel mio piccolo, recentemente, una cosa che ho fatto, un paio di anni fa, ho smesso di fumare, e ho smesso poco dopo che sono state emanate, come si dice, le leggi antifumo, ma se mi chiedo perché ho smesso, mi vien da pensare che non ho smesso per le leggi antifumo, né perché hanno aumentato il prezzo delle sigarette, ho smesso perché me l’ha chiesto mia figlia, e me l’ha chiesto in un modo che ho capito che, questa cosa che fumavo, la faceva star male, e la cosa che mi vien da pensare è che quelli che mi governano, quelli che schiacciano i miei bottoni, ha molti più bottoni mia figlia, del parlamento, o della corte costituzionale, è molto più importante, per guidare il mio comportamento, per indicarmi una strada, la testa di mia figlia, che la testa di Enrico Letta, o di Giorgio Napolitano e di Laura Boldrini, con tutto il rispetto per Enrico Letta e anche per gli altri, e allora la cosa che mi viene da chiedermi, in una situazione del genere, non credete che la vostra capacità di cambiare le cose sia indipendente dal fatto che voi, con ruoli diversi, siete nelle istituzioni?


Mi viene in mente quel passo di Guerra e Pace di Tolstoj, dove Pierre Bezuchov, il protagonista, è stato catturato dai francesi nel corso della campagna napoleonica, e è lì, di notte, nel recinto dei prigionieri, prigioniero dei francesi, i francesi hanno in mano tutta la sua bottoniera, sono arbitri della sua vita e della sua morte, come si dice, e lui è lì, che guarda il cielo stellato e, tutto d’un tratto, scoppia a ridere. E ride forte, e a lungo. E ride per questo pensiero, che gli è venuto: Ma la mia anima immortale, come fanno a tenerla prigioniera? Che è una bella domanda, mi sembra, dopo la quale andare avanti è difficile ma io ci vado lo stesso.



Da "Una regola" discorso pronunciato a Roma, alla Città dell’altra economia il 14 settembre del 2013 come introduzione al dibattito che chiude
 la festa di Left-avvenimenti al quale partecipano Pippo Civati, Adriano Zaccagnini, Mirko Tutino, Giulio Cavalli, Paola Natalicchio e Giovanni Tizian
e poi ripronunciato a Cagliari, nella sede dall’associazione Asibiri il 16 novembre 2013

Quel “certo gusto” italiano


È difficile iniziare a scrivere un articolo in favore del ripristino dell'insegnamento della Storia dell'Arte senza citare, e non certo per eccesso di nazionalismo, un certo "gusto italiano" facilmente riconoscibile non solo in patria ma, per chi non è avulso da mete internazionali, anche all'estero.

A chi non è capitato, trovandosi all'estero, di riconoscere un italiano semplicemente scorgendolo passare? Sarà anche per quell'innata capacità di abbinare con un certo gusto (quando diciamo “certo gusto” ci riferiamo a quello estetico e, chissà perché, ci capiamo) scarpe, vestiti, borsa e cappello?

Perché grandi attori, cantanti e registi (cosiddetti vip), sfilano sui famosi red carpet o partecipano a gran gala e premiazioni eminenti, con abiti di stilisti soprattutto italiani?
Perché oggi, in Italia, persino una classe di adolescenti in simbiosi con un iPhone, resta stupita e incredula quando si aggira tra le rovine sotterranee di città con oltre duemila anni di storia?

Perché anche una persona priva di educazione artistica, con una istruzione media, invitata ad un matrimonio nella Basilica Paleocristiana (Santa Maria Annunziata) di Paestum, può dire con orgoglio di esserci stata? Andando di fretta o prendendo l'autobus molti di noi camminano sopra secoli di Storia chiamati strade, vedono muri (e mura) che hanno attraversato epoche e restauri, ospitare mesti uffici, università, teatri, botteghe, musei, chiese, discoteche, ristoranti... mentre veniamo educati dai muri stessi, da fregi medievali, colonne neoclassiche, portici settecenteschi, facciate gotiche e angoli di strade secolari.

Eppure, uno dei messaggi più popolari, o almeno ciò che è passato, della Riforma Gelmini del 2009 è stato quello di definire la Storia dell'Arte come una materia desueta, barbosa, inattuale dunque inutile, troppo settoriale, insomma, che non crea profitto, almeno secondo una concezione della formazione unicamente “tecnicista”. Come se la tecnica, il profitto, lo sviluppo economico e la nuova imprenditorialità non traessero linfa dall'humus delle idee, che avvengono sì per intuizione, ma solo se vi è una base solida ed un terreno di pensiero fertile cui attingere.

Fino a pochi anni fa, le scuole italiane erano le uniche in Europa ad insegnare la Storia dell’Arte: una tradizione ormai di lunga data vigeva da novant'anni, grazie alla riforma Gentile del 1923 [1]. Riguardo l'attualità, poi, sappiamo quanto occorra saper creare ponti tra passato e presente, e che la Storia, tutta e non solo quella dell'Arte, insegna venendo in aiuto nei momenti più impensabilii grazie alla memorizzazione durante gli anni di studio e alla visualizzazione delle immagini. E' così possibile, ad esempio, spiegare ai ragazzi che l'origine del marchio di una scarpa Nike è avvenuto quando un giovane mezzofondista americano sognò la dea greca della vittoria Nike, mentre il simbolo, la virgola, è in realtà "un fruscio che aleggia come soffio divino" [2]. Per citare solo il primo contatto con questa affascinante materia avvenuto ormai circa vent'anni fa all'ingresso di quell'eclettico e variegato mondo che è stato per la sottoscritta il Liceo Artistico Sperimentale.

Parrebbe che quel gusto quasi spontaneo che citavo all'inizio abbia radici antiche e, per quanto riguarda il mondo occidentale, nasca nel centro-sud dell'Europa.
Ciò che ha generato forme di pensiero e precorso i tempi del rigore filosofico è riuscito, attraverso le doti di grandi artisti, a compiere quella miracolosa e unica operazione che viene definita come la nascita di un'avanguardia: intuire cosa sente una civiltà prima che venga ufficialmente riconosciuto e saperlo rappresentare con un linguaggio non verbale.

Dall'Illuminismo in poi, in epoca moderna (dall'estetica Kantiana alla nascita rivoluzionaria di una teoria speculativa dell'Arte con Schlegel, Novalis, Schelling, Hegel), vi è stato il fenomeno delle cosiddette avanguardie [3]: sorte dal coraggio di pionieri dalla profonda, abissale visione, spesso di matrice esistenziale, le quali hanno segnato una rottura nel modo dominante di sentire che solo successivamente è stata riconosciuta dagli intellettuali dell'epoca come una transizione del pensiero.

La nascita della Storia dell'Arte come disciplina può sorgere solo se viene riconosciuta prima l'esistenza della Storia come ambito del dispiegarsi di un operare umano che traduce un pensiero ed un sentimento fondamentali e può, secondariamente, essere valorizzata e apprezzata se esiste una civiltà che della Storia ne abbia cognizione, tradizione, studio, ricerca, o più semplicemente un passato abbastanza remoto cui potersi riferire sempre. Una cosiddetta Memoria Storica che si struttura sì in base a quanto appreso sui testi scolastici, oggi sul web e sempre meno tramandata da una generazione all'altra, ma moltissimo di tale memoria in Italia è costituito dal patrimonio “visivo”.

Camminare nelle piazze italiane (e penso a Piazza Maggiore a Bologna, Piazza Santa Croce a Firenze, Piazza Trento e Trieste a Padova, Piazza Vecchia a Bergamo Alta, Piazza Duca Federico a Urbino, ed altre ancora) permette ancora oggi di vivere un'autentica esperienza metafisica come fu quella di Giorgio De Chirico allorché si accinse a dipingere L'enigma di un pomeriggio d'autunno (1909-1910).
Inutile ricordare come la Storia dell'arte in quanto disciplina sia squisitamente europea, in quanto generata da categorie di pensiero associate ad un bisogno primigenio che non sono invece sorti in altre parti del mondo, sebbene come impostazione teorica e sistema di ripartizione la Storia dell'Arte sia adattabile ad ogni Paese e tradizione culturale [4].

In Italia si passa dall'educazione artistica delle scuole medie ad una vera e propria Storia dell'arte nelle scuole superiori, che spesso, se ben introdotta, aiuta gli studenti a costruire un senso critico del presente facendo maturare un senso civico per l'avvenire. 

Solo se le giovani menti, anche improntate ad uno studio tecnico, vengono tenute aperte ad un approccio estetico (e dunque un certo modo di guardare il mondo e di intenderlo che precede la visione tecnica) c'è anche la possibilità che si apra il canale della creatività: ovvero saper riprogettare il futuro, in qualsiasi ambito, perché “seduti sulle spalle di un gigante” . Le grandi idee sorgono a partire da domande che chiedono l'ampliamento di un ambito che è già conosciuto: per lanciarsi in una nuova impresa, in una ricerca o un approfondimento, così come per costruire un lavoro è necessario saper pensare a partire da ciò che già c'è.


Laura Stefenelli, Salvare la Storia dell'Arte, salvare Storia, Pensiero e Bellezza, http://asia.it


Note:
[1] L’insegnamento della Storia dell’arte nelle scuole secondarie superiori costituisce una peculiarità italiana, codificata dalla riforma Gentile del 1923, ma preparata da una serie di sperimentazioni attuate dai primi anni del Novecento, vedasi: http://www.anisa.it/ConvegnoCunsta_Firenze15giugno09_Ragionieri.pdf
Per approfondire il pensiero circa la filosofia dell'arte di Giovanni Gentile è interessante leggere La Filosofia dell'Arte in compendio ad uso delle scuole, G. C. Sansoni editore, Firenze, 1937, in particolare capitoli III e IV.

[2] Sull'origine del marchio si può consultare questo sito.

[3] Jean-Marie Schaeffer, L'arte dell'età moderna: estetica e filosofia dell'arte dal XVIII secolo ad oggi, Società editrice il Mulino, Bologna, 1996


[4] Martin Heidegger, Holzwege, Sentieri erranti nella selva, a cura di Vincenzo Cicero, edizione Bompiani Il Pensiero Occidentale, Milano, 2002 (I edizione) pag. 106-116.

lunedì 18 novembre 2013

Vivere alla fine dei tempi

La premessa di base di questo libro è semplice: il sistema capitalista globale si sta avvicinando a un apocalittico punto zero. I suoi « quattro cavalieri dell’apocalisse » comprendono la crisi ecologica, le conseguenze della rivoluzione biogenetica, gli squilibri interni al sistema stesso (problemi con la proprietà intellettuale; imminenti lotte per materie prime, cibo e acqua), e la crescita esplosiva delle divisioni ed esclusioni sociali.

Prendiamo ad esempio in considerazione l’ultimo punto: in nessun luogo le nuove forme di apartheid sono più palpabili che nei ricchi Stati petroliferi del Medio Oriente, Kuwait, Arabia Saudita, Dubai. Nascosti ai margini delle città, spesso letteralmente dietro muri, ci sono decine di migliaia di « invisibili » lavoratori
immigrati, che fanno il lavoro sporco, dalla manutenzione alla costruzione, separati dalle loro famiglie e privati di ogni privilegio.

Una situazione di questo tipo rappresenta chiaramente un potenziale esplosivo, che avrebbe dovuto essere convogliato dalla sinistra nella lotta contro lo sfruttamento e la corruzione, mentre viene oggi sfruttato dai fondamentalisti religiosi. Uno Stato come l’Arabia Saudita è letteralmente «oltre la corruzione»: non c’è bisogno di corruzione perché la cricca al potere (la famiglia reale) possiede già tutta la ricchezza, che può distribuire liberamente e a suo piacimento. In Stati di questo tipo la sola alternativa alla reazione fondamentalista sarebbe un tipo di Stato sociale socialdemocratico. Se le cose continueranno così, possiamo anche solo immaginare il cambiamento nella « psiche collettiva » occidentale quando (non se, ma precisamente quando) qualche gruppo o « nazione canaglia » otterrà un ordigno nucleare, o una potente arma chimica o biologica, e dichiarerà di essere « irrazionalmente » pronto a rischiare tutto nell’usarla? Le coordinate più basilari della nostra percezione dovranno cambiare, in quanto, oggi, viviamo in uno stato di negazione feticistica collettiva: sappiamo molto bene che a un certo punto questo accadrà, ma ciononostante non riusciamo a credere veramente che accadrà. Il tentativo da parte degli Stati Uniti di evitare un tale evento attraverso una continua attività preventiva è una battaglia persa in partenza: l’idea stessa che possa aver successo poggia su una visione fantasmatica.

Una forma più comune di « esclusione inclusiva » sono gli,slum, le baraccopoli, vaste aree che stanno al di fuori del controllo statale. Mentre sono generalmente visti come spazi in cui bande e sette religiose si contendono il controllo, gli slum offrono anche lo spazio per organizzazioni politiche radicali, come avviene in India, dove il movimento maoista dei naxaliti sta organizzando un vasto spazio sociale alternativo. Come ha affermato un funzionario statale indiano:

Il fatto è che se non riesci a governare un’area, allora quest’area
non è tua. Essa non fa parte dell’India, salvo sulle mappe. Almeno
la metà dell’India oggi non è governata. Non è sotto il tuo
controllo [...] c’è bisogno di creare una società completa in cui
ogni gruppo locale possa riporre interessi significativi. Non è
quello che stiamo facendo [...] e questo fornisce ai maoisti spazio
d’azione.

Per quanto simili segnali della « grande confusione sotto il cielo » abbondino, la verità fa male, e noi cerchiamo disperatamente di scansarla. Per spiegare come questo accada, possiamo rivolgerci a una guida inaspettata. La psicologa di origine svizzera Elisabeth Kübler-Ross ha proposto il celebre schema delle cinque fasi dell’elaborazione del lutto, conseguente, ad esempio, alla scoperta di avere una malattia terminale: rifiuto (ci rifiutiamo semplicemente di accettare il fatto: « Non può succedere, non a me »); collera (che esplode quando non possiamo più negare il fatto: « Perché succede proprio a me? »); venire a patti (nella speranza di potere in qualche modo posporre o diminuire il fatto: « Se potessi almeno vivere fino a vedere la laurea dei miei figli »); depressione (disinvestimento libidinale: « Sto per morire, e quindi chi se frega di tutto »); e accettazione («Visto che ormai non lo posso combattere, tanto vale che mi prepari »). In seguito Kübler-Ross ha utilizzato lo stesso schema per ogni forma di perdita personale catastrofica (disoccupazione, morte di una persona cara, divorzio, tossicodipendenza), puntualizzando che le cinque fasi non procedono necessariamente sempre nello stesso ordine, e che non ogni paziente le attraversa tutte e cinque.

È possibile scorgere le stesse cinque figure nel modo in cui la nostra coscienza sociale prova ad affrontare l’imminente apocalisse. La prima reazione è di rifiuto ideologico: non c’è alcun disordine essenziale; la seconda è esemplificata da esplosioni di collera di fronte alle ingiustizie del nuovo ordine mondiale; la terza comporta dei tentativi di venire a patti (« Se cambiamo un po’ di cose qua e là, potremmo forse continuare a vivere come prima »); quando il venire a patti fallisce, arrivano la depressione e la chiusura in sé stessi; infine, dopo essere passato per questo punto zero, il soggetto non considera più la situazione come una minaccia, ma come la possibilità di un nuovo inizio; o, come disse Mao Tse-tung: « Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente ».


Slavoj Žižek, Vivere alla fine dei Tempi Ponte alle Grazie  (2011) – Dall’introduzione

  

venerdì 15 novembre 2013

Doppia negazione Contro la legge contro il negazionismo di Alberto Cavaglion

Una nazione moderna, cui corrisponda una comunità di cittadini consapevoli, non dovrebbe avere paura della menzogna. 

Una democrazia che cerca di difendersi per legge dalla menzogna non è una democrazia forte. E’ una democrazia che ha paura.

Senza dire che facendo del negazionismo un reato, una democrazia dimostra la sua fragilità: una legge che prevedesse il carcere offrirebbe ai negazionisti la possibilità di ergersi a difensori della libertà di espressione. Sul piano dei principi una vera liberaldemocrazia si deve reggere sulla categoria della separazione. La Chiesa va separata dallo Stato, la magistratura dalla politica.

La Storia non può essere oggetto di leggi, accade così solo nei sistemi totalitari. Come lo Stato non dovrebbe interferire nella vita religiosa dei cittadini, così dovrebbe astenersi dall’affermare una verità di Stato in fatto di passato storico. Da tempo in Italia s’è diffusa invece la tendenza a votare leggi emergenziali su temi delicati che dovrebbero già avere dalla legge corrente la possibilità di essere sanzionati.

Per l’incitazione alla violenza contro gli ebrei, le donne e gli omosessuali, per l’apologia di reati ripugnanti e offensivi esistono già, nel nostro ordinamento, articoli di legge sufficienti a perseguire comportamenti criminali che si dovessero manifestare su questo o su altri terreni ad alta tensione ideologica. 

Non sono un segno di maturità le legislazioni emergenziali, anche a prescindere dal discorso estremo per antonomasia sulla Shoah.

La sanzione penale contro i negazionisti, non a caso, riemerge ciclicamente nella nostra pubblica discussione, sull’onda emotiva, per poi fatalmente riprecipitare nell’oblio, anche questo un segnale di immaturità. Strano paese l’Italia dove le leggi ci sono, ma fatichiamo ad applicarle o non le applichiamo per nulla, preferendo imboccare la scorciatoia di una nuova norma, senza che dietro vi sia una battaglia culturale, etica e politica, che potrebbe creare gli anticorpi capaci di estirpare o almeno ridimensionare ed emarginare le posizioni negazioniste. Una maggiore sorveglianza se mai sarebbe auspicabile nelle università, nei dipartimenti di storia, chiamati per loro natura a ragionare sul passato e dunque, in teoria, ma talvolta non in pratica dovrebbero essere più attenti a non lasciarsi contagiare dal virus della menzogna.


Le cose stanno in questi termini in una democrazia forte, ma l’Italia è una democrazia forte? Non mi sembra proprio, le cose che si sono viste e lette in questi giorni non incoraggiano per nulla. La vicenda Priebke dimostra quanto debole, prigioniera di sofismi perché impaurita sia l’Italia di oggi:  questo dato dovrebbe preoccupare coloro che veramente vogliono respingere gli attacchi degli assassini della memoria. La fragilità deriva in primo luogo dall’eterno ritorno dell’eguale. Se un nostro concittadino si fosse allontanato da Roma nei giorni della fuga vergognosa di Kappler e fosse rientrato in tempo per vedere la scena di Albano dell’altra sera, non mostrerebbe alcuna sorpresa.




martedì 29 ottobre 2013

L’estasi del Tra Noi e L'oblio di lei


L’estasi del Tra Noi

È probabilmente necessario ritornare al mondo dei presocratici, per capire qualcosa del tra-noi oggi.

Entrare in quel mondo ha luogo per il tramite di una guida, un maestro. 

Egli inizia il discepolo, in un certo modo un figlio, alla verità, alla logica della verità occidentale.

Il maestro comincia generalmente il suo insegnamento con le parole: Io dico. Ossia egli pensa che la verità sia garantita dal proprio discorso e che il discepolo debba ripetere lo stesso discorso, affermando: egli dice, o egli ha detto. La verità è dunque trasmessa dal maestro al discepolo, come da un padre a un figlio. La verità è trasmessa tra uomini, secondo un ordine genealogico o gerarchico.

L'oblio di lei

È noto, come ricorda per esempio Clémence Ramnoux nel suo lavoro sui presocratici, che all'origine è una lei - natura, donna o Dea - che ispira la verità a un saggio. Il maestro però tiene generalmente segreto ciò che ha ricevuto da lei, grazie al quale, grazie alla quale, ha elaborato il suo discorso. Egli non dice granché riguardo a questa origine, perché le parole gli mancano o perché vuol tenerlo per sé - perché non può o non vuole parlare della sua relazione con lei. Questa relazione rimane quindi nascosta o rimossa dall'insegnamento del maestro presocratico.
Tuttavia, alcuni maestri, quali Empedocle o Parmenide, alludono a lei, ciascuno a suo modo. Anche Platone accenna a lei, almeno quando si tratta dell'amore, della relazione-tra. Comunque, sono uomini che evocano un'assenza o un assente, un vuoto o un'eccedenza. Fanno riferimento a qualcosa che è altro rispetto al loro discorso, a un aldilà per il quale non hanno parole, e soprattutto logica. Un qualcosa che dissimulano, al quale alludono talvolta in assenza di lei. Un qualcosa che sarà lasciato al di fuori del logos, nel bene o nel male.

A quel tempo, la memoria ancora sussiste di un non-detto, di un aldilà nel quale meraviglia, magia, estasi, crescita e poesia si mescolano, resistendo al nesso logico che viene imposto alle parole, alle frasi, al mondo. Alcune tracce ne rimangono, almeno nel discorso di alcuni maestri.

Una sorta di estasi ancora esiste riguardo a ogni discorso, ogni scambio tra uomini negli spazi pubblici o in altri cenacoli, luoghi in cui parlano, parlano soltanto fra loro. Qualcosa rimane che non riescono a esprimere, neppure a sperimentare di nuovo, perché mancano gesti o parole per dirlo, per trasmetterlo, per produrlo. Permane solo la memoria di un'esperienza - che a poco a poco sarà cancellata -, l'esperienza di un meraviglioso, inaccessibile, inesprimibile aldilà. Un aldilà che nasceva da un incontro con lei - natura, donna o Dea - a proposito del quale la maggior parte dei maestri non dicono quasi nulla e al quale non rinviano il discepolo. Il loro insegnamento dovrebbe essere autosufficiente, staccato da lei come fonte.

Certo non tutti i maestri sostengono che debba essere così, ma certi tra loro lo fanno. E, a poco a poco, il loro insegnamento introdurrà il discepolo in un universo chiuso, parallelo al mondo vivente, al mondo naturale. Tuttavia, per alcuni maestri - come Empedocle o Parmenide - la totalità del discorso è ancora misteriosamente fondata a partire da lei - natura, donna o Dea - che rimane l'inaccessibile cosa dalla quale sorgono le parole e alla quale sono rivolte. Per altri invece - Eraclito, per esempio - il discorso si richiude su di sé per mezzo di strategiche opposizioni conflittuali. Ormai diviene possibile che la conversazione e il dialogo abbiano luogo tra sé e sé, dentro o tra il(i) medesimo(i), e la verità e il linguaggio comincino a parlare a partire da loro, su di loro, senza alcuna origine in un altro o senza alcun ritorno ad un altro, un altro che è all'inizio femminile — natura, donna, Dea. L'uomo si stabilisce nella sua dimora di linguaggio, staccato dal reale e dall'altro in quanto reale. Una tautologia di parole, di verità isola i soggetti parlanti — maestro e discepolo — in un riparo, un universo, una logica che raddoppia ciò che appartiene alla loro nascita, alla loro crescita, alla loro realtà naturale. 

Questo gesto avviene in un modo più segreto e sottile di quello di Prometeo, e prepara a una morte per soffocamento, spossatezza, isolamento, conflitto e infine distruzione di lei — natura, donna o Dea. Lei svanisce in una cultura fondata nel medesimo, al di là della quale si estende e della quale è testimonianza la nostalgia di alcuni maestri verso un aldilà. Alludono a un «vuoto», a una «lacuna», tutt'al più a un «Essere» al di là del loro discorso per coloro che, come Parmenide, ancora si fidano di lei.



Luce Irigaray All'inizio, lei era, Bollati Boringhieri, Torino, 2013