La questione morale è la questione, argomenta Roberta De
Monticelli, filosofa di statura europea con anni di insegnamento a Ginevra e
ora a Milano al San Raffaele, nel suo nuovo libro (La questione morale, Raffaello Cortina).
Sostenendo che la morale non è un' applicazione secondaria ma il
punto da cui tutto dipende, l´autrice si pone in pieno contrasto col pensiero
dominante in Italia, che concepisce la morale come traduzione pratica di un
primato assegnato ad altro, a una dimensione vuoi politica, religiosa,
economica, scientifica, teoretica.
Chi assegna il primato alla morale può stare sicuro oggi in
Italia di ricevere l' antipatica etichetta di «moralista», sinonimo nel linguaggio
comune di persona noiosa e pedante, incapace di fare i conti con la vita
concreta. Contro questo cinismo che conosce solo la logica del potere, De
Monticelli scrive pagine di vera passione intellettuale attaccando il potere
politico («l'interesse affaristico che si
fa partito e prostituisce il nome di libertà»), mediatico («facce patibolari»), ecclesiastico («nichilismo morale»), intellettuale («disprezzo ardente per tutto ciò che è comune»).
Arriva anche alla piaga più dolorosa: «Una sorprendente maggioranza degli italiani che approva, sostiene e
nutre» tale logica del potere.
Alla denuncia segue però una proposta costruttiva («tornare a respirare»), dove lo
scetticismo pratico viene confutato proprio in base al suo punto forte, cioè il
freddo utilizzo della ragione, perché esercizio della ragione ed esperienza dei
valori sono strettamente legati: «Alla base della logica c´è l´etica… alla base
dell´etica c´è la logica».
Ritrovandomi pienamente d´accordo con la mia illustre collega,
intendo onorare il suo pensiero approfondendo il nodo radicale del nostro
Paese, cioè la «sorprendente maggioranza
di italiani che approva, sostiene e nutre» lo scollamento tra etica e
politica. Il problema è politico nel senso radicale del termine, riguarda cioè
la raccolta del consenso. Come si raccoglie il consenso?
Giocando sulle passioni e sugli interessi, quasi per nulla sul
senso di giustizia (a meno di farlo diventare a sua volta una passione e un
interesse, trasformando così però la giustizia in iniquo giustizialismo). Da
qui una sorta di primordiale conflitto di interessi: da un lato la morale che
vive della solitudine della coscienza perché la vita ci mostra che sollevare
problemi morali nel nome della coscienza significa spesso rimanere soli;
dall´altro la politica che non può permettersi la solitudine. Da un lato la
morale che si gioca in una impolitica solitudine, dall´altro la politica che si
gioca nella capacità di raccogliere il consenso, operazione eminentemente
sociale e quindi basata di necessità sugli interessi e le passioni (rimando
d´obbligo il grosso animale della Repubblica di Platone e le indimenticabili
pagine di Simone Weil al riguardo). La coscienza impone di essere giusti, ma
l´essere giusti non paga in termini di fascino sociale e di raccolta del
consenso. In particolare non paga in Italia, dove gli elettori da anni premiano
un uomo che sanno bene non essere lo specchio della morale (ma è ricco,
fortunato, abile, "tanto simpatico").
La questione morale quindi, politicamente intesa, è altamente
drammatica. Il problema che essa pone si chiama traducibilità dell´etica a
livello politico, o meglio non-traducibilità. Fate una campagna elettorale
all´insegna della giustizia e del rispetto e sarete ricompensati con il minimo
dei voti. È innegabile quanto scrive De Monticelli: «L´imbarbarimento morale e civile si combatte risvegliando le coscienze
alla serietà dell´esperienza morale». Ma purtroppo è altrettanto innegabile
che una raccolta del consenso politico oggi in Italia sulla base della serietà
dell´esperienza morale è destinata a non oltrepassare la soglia di sbarramento:
con quel programma lì si entra in monastero, non nel Parlamento italiano.
Il problema non è etico, è fisico, di quella fisica della
politica che Simone Weil attribuiva a
Machiavelli. Ovvero: perché l´aggregazione sociale non avviene
nel nome della giustizia e della morale, ma degli interessi e delle passioni, e
quindi molto spesso a scapito della giustizia e della morale?
Di fronte a questo immenso problema, qui mi limito a dire che a
mio avviso lo si può affrontare solo mediante i partiti e i professionisti
della politica (la cui importanza vitale appare in particolare oggi, con le
nostre classi dirigenti quasi del tutto prive di veri professionisti della
politica). Il partito politico, nella misura in cui è veramente tale e non un
semplice cartello elettorale, media gli interessi e le passioni della
moltitudine attraverso un progetto più ampio, rivolto al bene comune. Il
partito politico è il luogo in cui gli interessi e le passioni dei singoli
vengono veicolati al servizio di un progetto più ampio, lo stato. Senza la
mediazione dei partiti si ha il corto circuito tra leader e interessi e
passioni della moltitudine, ovvero il populismo. Oppure l´altro estremo, il
moralismo, che non vede l´inspiegabile ma reale distanza tra la morale e la
politica e crea tra le due un impossibile passaggio diretto, finendo per
generare costrizioni e violenza, il contrario della morale.
Occorre coltivare insieme il primato della morale e il richiamo
della dura realtà. Una società (e prima ancora una persona) è matura quando
ospita dentro di sé il gioco di queste due forze, quando sa porre il primato
dell´etica e quando sa mediarlo con l´opacità del reale. E al riguardo il ruolo
dei partiti e dei veri politici è insostituibile.
Vito Mancuso in “la Repubblica” dell'11 dicembre 2010