lunedì 28 febbraio 2011

Giardiniere - una riflessione

Certo che, se non avessi fatto lo scrittore, avrei potuto diventare giardiniere”, confidò Anton Pavlovič Čechov a un amico. (…) Un Čechov giardiniere si sarebbe trovato agli antipodi della vita brillante dello scrittore famoso e acclamato. Il giardiniere vive ai margini della mondanità, limitandosi a curare lo scenario dove altri reciteranno la loro parte. Umile nel senso letterale del termine, si applica giorno dopo giorno a un silenzioso corpo a corpo con la terra, in paziente contatto con la natura, in questa intimità trovando, talvolta, la sua beatitudine. (…) Il religioso e il giardiniere sono le due facce di ora et labora: una postura contemplativa, un modo di essere che predispone ad avvertire, senza schermo di distrazioni, in nudità interiore assoluta, insieme alla desolazione, la sconvolgente bellezza del mondo.

 

di PIA PERA (Anton Čechov, Tre racconti, a cura d Pia Pera, Roma, Voland 2011)

mercoledì 23 febbraio 2011

Autobiografia di un arcangelo 3 - Fine

Lungo questi soprassalti del sentire m'accadde un giorno di percepire come talvolta fosse inarrestabile la pulsione verso il declino, verso la fine. Abitavo da qualche tempo i pensieri di una ragazza: era dolce il suo sguardo, il seno fiorito, le gambe leggere, i capelli un'onda profumata, la bocca il frutto rosseggiarne di un albero a primavera. La tristezza da tempo la possedeva: così lei svagava con la mente in regioni perse e cupe. Le relazioni con i familiari e con gli amici erano tremolii dell'acqua nella superficie del sentire: non rassicurazioni e legami, ma pallidi fluttuanti fantasmi di un'affettività dispersa. Anche l'amore di un ragazzo che in altri momenti aveva saziato l'arsura del suo vuoto, appariva ora piuttosto come l'ombra inquieta di una possibilità in disfacimento. Quanto a me, in quell'occasione ho lottato strenuamente figurando in lei fantasmi di dolcezza, evocando istanti di piaceri già provati, sospingendo i ricordi più cari, gli abbracci più teneri, verso la soglia di un possibile ritorno. Ho suggerito divagazioni, profili di nuovi incontri, ho insinuato un fisico dolce compiacimento per la bellezza del proprio corpo, ho instillato tutte le sottili percezioni in cui l'attesa prende forma e respiro e sospende la spina di ogni altro sentire. Non sono riuscito a trattenere il nero gesto con il quale la ragazza, prima di godere in pieno il fiore della vita, alla vita ha rinunciato.
Sopravvenne per me l'epoca di uno stato di sospensione: non più angelo tra gli angeli, non più angelo tra gli uomini. Vagavo nei cieli, perso nei pensieri, privo di desideri, non più testimone della gloria altrui, ma neppure confinato nel tumultuante brulichio dell'umano patire. Simulacro di una possibilità dispersa. Immagine di un'alterità sognata e inesistente. Residuo inerte di una celestialità illusoria.

 La mia storia, come vedete, cominciò con una distrazione dalla pienezza della beatitudine, una distrazione che coincise con lo sguardo nello specchio del tempo. So che qualcuno, nel mondo terrestre, può chiamare questa distrazione col nome di vita. Per me, arcangelo crocifisso sul legno della malinconia, è il principio della colpa, il principio della caduta. O forse è la forma compiuta di un'altra perfezione. Una perfezione che per conoscersi si dilata fino a comprendere la sua stessa dissipazione, la sua fuga.

Antonio Prete in Il Racconto Ulteriore a cura di F. Ermini, Moretti &  Vitali, Bergamo, 2006

martedì 22 febbraio 2011

Quel che c'è da capire

Alice capisce tutto quel che c'è da capire. Quel che c'è da capire, dicevano i grandi, è dentro una grossa pentola, di quelle in cui si bolle l'acqua per la pasta; solo che questa pentola non si può piu' usarla per bollire l'acqua perche' qualcuno ha avuto la bella idea di metterci dentro tutto quel che c'è da capire.
Così i grandi l'hanno nascosta in cantina, in mezzo a tante cianfrusaglie, e perche' quel che c'è da capire non esca fuori e si disperda ai quattro venti l'hanno chiusa ermeticamente con del nastro adesivo, e sopra ci hanno messo un ferro da stiro, una chiave inglese e un'incudine - oggetti pesanti, insomma, per tenere il contenuto al sicuro.
Alice pero' non si è fatta scoraggiare dalle loro precauzioni ed è andata a cercare la pentola. La cosa piu' difficile per lei è stata scendere in cantina: la scala è stretta e buia, e in fondo bisogna girare un angolo, e mentre si scende si ha l'impressione che dietro quell'angolo ci sia qualcosa di orribile, uno di quei mostri di cui parlano le favole - le favole finte, voglio dire, quelle scritte apposta per imbrogliarci e per spaventarci.
Prima o poi, stringendo forte i denti e chiudendo gli occhi, Alice è arrivata in fondo alla scala; e quando c'è riuscita ha subito voluto riprovarci, e ha riprovato ancora e ancora, finche' poteva farlo canticchiando e saltando i gradini a due a due.Superato l'ostacolo della scala, il resto è venuto liscio come l'olio: la porta della cantina non è chiusa a chiave, la pentola è lì in bella vista e gli oggetti pesanti che ci sono sopra non c'è bisogno di sollevarli.
Basta inclinare la pentola e cadono di lato, facendo un gran fracasso. Allora si tratta di togliere il nastro adesivo e alzare il coperchio.
Alice ha compiuto questa operazione piu' volte. La prima volta è rimasta sorpresa, perche' dentro la pentola non ha trovato nulla. Ha pensato che fosse l'ora sbagliata: che forse le cose si capiscono di sera, o di notte, o la mattina molto presto quando è gia' chiaro ma non è ancora comparso il sole. Così è tornata, di sera, di notte e anche la mattina molto presto, muovendosi circospetta con i suoi piedini leggeri per non svegliare nessuno; ma la pentola era sempre vuota.
Per un po' Alice è rimasta delusa, e si è anche preoccupata. "Sta a vedere" pensava "che aprendo la pentola ho lasciato venir fuori tutto quel che c'è da capire, e adesso si è disperso ai quattro venti e nessuno lo trovera' piu'." "Ma no" si rispondeva poi da sola "ci sono stata bene attenta.Non ho visto niente che usciva. E, se non ho visto niente, che cosa c'era da capire?".
Alla fine Alice ha capito. Ha capito che i grandi avevano torto: quel che c'è da capire non si mette in una pentola, non si nasconde in cantina, perche' non può venirci da fuori, non può esserci dato da un altro. Ha capito che si capisce sempre quel che abbiamo dentro, e se lo capiamo bene possiamo anche farlo venir fuori, e costruirci case e ponti e automobili e trattori; ma, se non capiamo quel che abbiamo dentro, fuori non c'è niente da capire.
Quando ha capito, Alice ha rinchiuso la pentola con il nastro adesivo e faticosamente ci ha rimesso sopra il ferro da stiro, la chiave inglese e l'incudine. Da allora passa molto tempo nella sua camera, a capire quel che ha dentro; poi esce e con quel che ha capito cambia il mondo.

(Ermanno Bencivegna, La filosofia in 52 favole)

domenica 20 febbraio 2011

Filosofia e felicità: parliamone al Cafè Philo



"Meneceo,
mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità.
A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell'animo nostro.
Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l'età.
Ecco che da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità
".


Questo è l'incipit dell'Epistola a Meneceo di Epicuro, conosciuta anche come Lettera sulla Felicità.
Una intervista immaginaria al filosofo ci introdurrà a una visione della felicità che ancora oggi ci può dare da riflettere, naturalmente insieme!
Il 23 gennaio 2011 alle 20.30 vi aspettiamo al nostro Cafè Philo, che si svolgerà presso la nostra sede, in Via Carlo Denina, 72!

mercoledì 16 febbraio 2011

Autobiografia di un Arcangelo - 2

La percezione del tempo mi dislocò tra gli angeli chiamati a muoversi tra il cielo e la terra, tra gli imperscrutabili voleri divini e le ansie degli uomini. Il mio compito, da quel momento, fu annunciare, vigilare, custodire. Per queste funzioni non amavo assumere, come gioiosamente facevano altri miei consimili, figure umane: mi collocavo tra i pensieri degli uomini, negli interstizi delle immagini, negli intervalli che separano un ricordo dal desiderio, un sogno dal risveglio. Ero un frammento temporale di cielo nel movimento della volontà, uno scarto di invisibile libertà nel concatenarsi delle azioni. Da questa posizione - così diversa dal folgorante schierarsi in eserciti e in cori che molti arcangeli prediligevano - seguivo nelle anime prescelte il dispiegarsi quotidiano dei sentimenti: sentivo con allegrezza l'insorgere della gioia, aspettavo con tremore l'onda della disperazione. La mia presenza, tutta inferiore, accompagnava quegli esseri nelle loro giornate, contribuendo a dare forma al desiderio, a far dileguare un'ossessione, a far crollare le resistenze dinanzi a una scelta che si sarebbe rivelata benefica o rasserenante. Ho seguito contadini e uomini d'arme, mercanti e artisti, giovani ardenti d'amore e mendicanti solitari, principi malinconici e saltimbanchi, fanciulle luminose di corporale bellezza e infelici storpiati nelle membra: in tutti era l'implacabile svolgersi del tempo, l'appassire violento delle speranze,   che mi sorprendeva e inquietava, inchiodandomi a una gelida impotenza. Un'impotenza che di caso in caso accresceva il mio distacco   dalla trionfante celestialità alla quale appartenevo, dalla quale provenivo. Insieme a questa spirituale condivisone del declino, si insinuava in me, irresistibile, persino insultante, la persuasione che la condizione umana era imprigionata dentro una legge costante, dentro una necessità: lo scarto tra il desiderio e l'azione, tra il sogno e l'esperienza. Non la pietà prendeva allora posto tra i miei pensieri, ma un disagio forte, un'irrequietudine incontenibile, persino un'ostilità nei confronti della perfezione alla quale ancora sentivo, per una parte del mio essere, di appartenere, sebbene sempre più fievolmente.

lunedì 14 febbraio 2011

Lettera di Chris McClandess a Ron

Ron, apprezzo sinceramente l’aiuto che mi hai dato e i momenti che abbiamo trascorso insieme. Spero che la nostra separazione non ti abbia depresso troppo. Potrebbe passare molto tempo prima di rivederci ma, ammesso che io superi l’affare Alaska tutto d’un pezzo, riceverai di sicuro mie notizie. Vorrei ripeterti solo il consiglio che già ti diedi in passato, ovvero che secondo me dovresti apportare un radicale cambiamento al tuo stile di vita, cominciando con coraggio a fare cose che mai avresti pensato di fare o che mai hai osato. C’è tanta gente infelice che tuttavia non prende l’iniziativa di cambiare la propria situazione perché è condizionata dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose che sembrano assicurare la pace dello spirito, ma in realtà, per l’animo avventuroso di un uomo non esiste niente di più devastante che un futuro certo. Il vero nucleo dello spirito vitale di una persona è la passione per l’avventura. La gioia di vivere deriva dall’incontro con nuove esperienze e quindi non esiste gioia più grande dell’avere un orizzonte in continuo cambiamento, del trovarsi ogni giorno sotto un sole nuovo e diverso. Se vuoi avere di più dalla vita, Ron, devi liberarti della tua inclinazione alla sicurezza monotona e adottare uno stile più movimentato che al principio ti sembrerà folle, ma non appena ti ci sarai abituato, ne assaporerai il pieno significato e l’incredibile bellezza. Per cui Ron, in poche parole, vattene da Salton City e mettiti sulla strada. Ti garantisco che sarai felice di averlo fatto. Temo però che il mio consiglio non sarà ascoltato. Dici sempre che sono testardo, ma tu lo sei più di me. Hai avuto una meravigliosa opportunità sulla via del ritorno di vedere uno dei paesaggi più belli della terra, il Grand Canyon, qualcosa che ogni americano dovrebbe vedere almeno una volta nella vita. Eppure, per qualche ragione a me incomprensibile, non desideravi altre che arrivare a casa al più presto, tornare nei luoghi che vedi giorno dopo giorno. Temo che in futuro continuerai a seguire questa inclinazione e non riuscirai di conseguenza a scoprire tutte le cose meravigliose che il Signore ha disposto intorno a noi. Non fissarti in un posto, muoviti, sii nomade, conquistati ogni giorno un nuovo orizzonte. Vivrai ancora a lungo, Ron, e sarebbe un peccato se non cogliessi l’oppurtunità di rivoluzionare la tua esistenza ed entrare in un regno di esperienze tutto nuovo.
Ti sbagli se credi che la gioia derivi soltanto o principalmente dalle relazioni umane. Il Signore l’ha disposta intorno a noi e in tutto ciò che possiamo sperimentare. Non dobbiamo che trovare il coraggio di rivoltarci contro lo stile di vita abituale e buttarci in un’esistenza non convenzionale.
La mia opinione è che non hai bisogno nè di me nè di nessun altro per portare questa gioia nella tua vita. E’ semplicemente li che ti aspetta, che aspetta di essere afferrata, e tutto quello che devi fare è tendere la mano per prenderla.
Spero davvero, Ron, che non appena ti sarà possibile, lascerai Salton City, attaccherai una roulotte al camion e comincerai a goderti il grande lavoro che il Signore ha compiuto nell’ovest americano,vedrai cose, conoscerai gente, e ti insegneranno molto. Dovrai farlo in regime d’economia, niente motel, preparati da mangiare da solo e, come regola generale, spendi il meno possibile, perché così ti ritroverai ad apprezzare immensamente ogni cosa.Spero che la prossima volta che ti vedrò sarai un uomo con una sfilza di nuove esperienze e avventure alle spalle.Non esitare o indugiare in scuse. Prendi e vai.
Sarai felice di averlo fatto.
Riguardati Ron,
Alex

(Tratto da Nelle terre estreme, di Jon Krakauer, 2008)

domenica 13 febbraio 2011

Io


C’ero una volta io, ma non andava bene. Mi capitava di incontrare gente per strada e di scambiarci due parole, e per un po’ la conversazione era simpatica e calorosa, ma arrivava sempre il momento in cui mi si chiedeva “Chi sei?” e io rispondevo “Sono io”, e non andava bene. Era vero, perché io sono io, è la cosa che sono di più, e se devo dire chi sono non riesco a pensare a niente di meglio. Eppure non andava bene lo stesso: l’altro faceva uno sguardo imbarazzato e si allontanava il più presto possibile. Oppure chiamavo qualcuno al telefono e gli dicevo “Sono io”, ed era vero, e non c’era un modo migliore, più completo, più giusto di dirgli chi ero, ma l’altro imprecava o si metteva a ridere e poi riagganciava.
Così mi sono dovuto adattare. Prima di tutto mi sono dato un nome, e se adesso mi si chiede chi sono rispondo: “Giovanni Spadoni”. Non è un granché, come risposta: se mi si chiedesse chi è Giovanni Spadoni probabilmente direi che sono io. Ma, chissà perché, dire che sono Giovanni Spadoni funziona meglio. Funziona tanto bene che nessuno mai mi chiede chi è Giovanni Spadoni: si comportano tutti come se lo sapessero.
Invece di chiedermi chi è Giovanni Spadoni gli altri mi chiedono dove e quando sono nato, dove abito, chi erano mio padre e mia madre. Io gli rispondo e loro sono contenti. E forse sono contenti perché credono che io sia quello che è nato nel posto tale e abita nel posto talaltro, e che è figlio di Tizio e di Caia e padre di questo e di quello. Il che non è vero, ovviamente: non c’è niente di speciale nel posto tale o talaltro, o in Tizio o in Caia. Se fossi nato altrove, in un’altra famiglia, sarei ancora lo stesso, sarei sempre io: è questa la cosa che sono di più, la cosa più vera e più giusta che sono. Ma questa cosa non interessa a nessuno: gli interessa dell’altro, e quando lo sanno sono contenti.
Una volta c’ero io, e non andava bene. Adesso c’è Giovanni Spadoni, che è nato a X e vive a Y e così via. E io non sono niente di tutto questo, ma le cose vanno benissimo.
(di Ermanno Bencivegna, "La Filosofia in 52 favole", 2011)

martedì 8 febbraio 2011

Autobiografia di un arcangelo -1

Pubblichiamo in 3 puntate questa bella riflessione sul tempo di Antonio Prete (in "Il racconto Ulteriore" a cura di F.Ermini - Moretti & Vitali 2006)

La mia sostanza di luce volava tra le sfere celesti, adempiendo i suoi compiti, fissa nel Principio che la costituiva e la muoveva, coessenziale a una beatitudine che era lode dell'universo e concordia con il suo moto. Nulla esisteva al di fuori di questa energia armoniosa: i pensieri e il volo erano la stessa cosa, la prossimità alla visione e la quiete del desiderio avevano lo stesso ritmo luminoso, il canto e il silenzio, la bellezza e l'adorazione erano forme in sé coincidenti, splendenti per questa coincidenza. Fu quando il mio corpoluce si imbattè nella sfera del tempo – nel divenire e consumarsi della materia - che cominciai ad avere una coscienza delle cose accorta e pungente, un senso di me, di me nell'universo, esposto alla malinconia del declino, ma anche alla noia della ripetizione. Fu quello l'inizio della mia avventura. 
Fu quell'incontro che mi condusse, di pensiero in pensiero, verso la decisione di questo racconto.
Scoperto l'assillo del tempo, del suo implacabile avvertimento, la mia contemplazione dell'Eterno cominciò ad avvertire nel cielo il tremolare di una luce obliqua, intermittente: un velo che copriva ogni cosa, ogni evento, rendeva opaca la mia dedizione.
 L'incontro dello specchio del tempo avvenne in modo inatteso. Nella geometria dell'universo ero stato collocato in un punto da cui mi muovevo e a cui tornavo, un punto ch'era anch'esso luce e musica, elemento di un ordine già configurato, immodificabile, assoluto.
Da quel punto partiva e a quel punto tornava la mia partecipazione all'armonia del tutto, in quel punto  nasceva la mia preghiera, la mia stessa esistenza. Tutt'intorno il dispiegarsi, superbamente abbagliante, dell'infinito.
Un giorno - dico ora un giorno, ma la scansione del tempo non era ancora nei miei pensieri - il mio viaggio tra le sfere celesti visse l'esperienza istantanea di un trasalimento, forse di una rivelazione: assistetti alla deflagrazione di una stella. Un corpo immenso, luminoso, infocato e roteante esplodeva in migliaia di frammenti che si sventagliavano nello spazio muovendo verso altri corpi celesti e spegnendosi nel volo. Quell'evento si situò nei miei pensieri come la prima increspatura della celestiale perfezione. Il formarsi di una stella e la sua fine, il movimento di innumerevoli mondi, il viaggio assiduo delle comete, l'addensarsi compatto e vorticoso della materia o il suo lento dissiparsi, insomma tutti gli eventi che mostravano il divenire dell'universo li avevo fino allora considerati come il respiro del Principio, come un batter di ciglia del Fondamento, un'epifania del Nome.
Tutto accadeva perché doveva accadere, tutto si muoveva nell'orizzonte di un ordine. E di questo ordine io ero soltanto un punto, danzante nella sua gloriosa pienezza. Una scintilla di Colui che era prima del divenire, prima del mondo.

mercoledì 2 febbraio 2011

Amore e Morte

Nella primavera del suo venticinquesimo anno, Sumire si innamorò per la prima volta nella vita. Fu un amore travolgente come un tornado che avanza inarrestabile su una grande pianura. Spazzò via ogni cosa, trascinando in un vortice, lacerando e facendo a pezzi tutto ciò che trovò sulla sua strada, e dietro non si lasciò nulla. Poi, senza aver perso nemmeno un grado della forza, attraversò il Pacifico, distrusse senza pietà Angkor Wat e incendiò una foresta indiana con le sue sfortunate tigri. In Persia si trasformò in una tempesta del deserto e seppellì sotto la sabbia un’esotica città-fortezza. Fu un amore straordinario, epocale. La persona di cui Sumire si era innamorata aveva diciassette anni più di lei ed era sposata. E come se non bastasse, era una donna. E’ da qui che tutto cominciò, ed è qui che tutto (o quasi) finì.

Così comincia il romanzo di Haruki Murakami “La ragazza dello Sputnik” (Einaudi) che s’interroga sull’amore. Che parla d’amore e di morte.