mercoledì 26 febbraio 2014

Dopo il leviatano

"The horror! The horror!" Le ultime parole pronunciate da Kurtz nello straordinario romanzo di Joseph Conrad svelano inequivocabilmente il «cuore di tenebra» della cultura occidentale che è al centro della ricerca filosofica e politica di Giacomo Marramao (come si dispiega in questo volume del 1995, ora ripensato e assai ampliato): la logica dell’identità e della reductio ad unum. Una logica intorno alla quale si è organizzata una Modernità che attraverso l’ordine Sovrano ha creato il Pubblico e il Privato, il Popolo e l’Individuo, lo Stato e l’Identità, maledicendo la moltitudine della «differenza».
Una ricerca tesa a restituire la profondità di campo del Moderno, a dispetto di tutte le retoriche postmoderne del dissolvimento e oltrepassamento della modernità. Distante dall’abbandono «debolista» alla deriva dell’esistente, ma anche da quelle posizioni che leggono la modernità come progetto incompiuto da rilanciare attraverso un paradigma comunicativo-consensuale, e sempre attenta a bypassare gli idola del postmoderno come quelli della modernità. Già, perché la condizione postmoderna si rivela ben poco radicale, soggiacendo in realtà alla condizione moderna, tanto che, avrebbe detto Michelstaedter, «non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende e quanto pende dipende».
Ecco quindi che il «futurismo» del Progetto moderno e il «presentismo» dell’Antiprogetto postmoderno si rivelano essere i due lati dello stesso processo moderno di temporalizzazione della «catena dell’Essere», e il multiculturalismo dei «ghetti contigui», delle differenze che rivendicano la loro specificità rapportandosi le une alle altre come «monadi senza porte né finestre», riproduce e moltiplica in sedicesimo la stessa logica identitaria moderna. Colonizzazione del futuro ed eternizzazione del presente, individuo e comunità, si rapportano l’un l’altro come in un gioco di specchi o double bind.
Ecco perché, ora che siamo oltre la soglia dello Stato-Leviatano, e la Modernità si è trasformata in una Modernità-Mondo, risultano sterili e retorici i superamenti e i rovesciamenti. Bisogna invece lavorare a uno spostamento laterale, e dall’interno stesso della ipermodernità aprire la breccia all’universalismo della differenza (al singolare): una sintesi disgiuntiva distinta «per un verso dall’universalismo dell’identità di stampo illuministico, per l’altro dall’antiuniversalismo delle differenze di stampo multiculturalista».
Questa la proposta avanzata dopo una densa e poderosa analisi della patogenesi del Moderno che attraversa, tra gli altri, Schmitt e Foucault, Weber e la Scuola di Francoforte, gli austromarxisti e i politologi e giuristi weimariani, compresa una preziosa rilettura dell’opera di Borkenau, La transizione dall’immagine feudale all’immagine borghese del mondo (1934) e della polemica che oppose Borkenau e Grossmann intorno al problema dei rapporti fra struttura sociale e sovrastrutture filosofiche. Tanto più affascinante oggi quando ci troviamo ad attraversare un’altra transizione.
Per chiudere, un’ultima osservazione: Marramao giustamente sottolinea come a differenza delle rivoluzioni moderne, che ponevano al primo posto il cambiamento delle strutture, ora è invece necessario spostare l’attenzione sulla costituzione dei soggetti. E in questo senso risulterebbe particolarmente produttivo indagare la natura paradossale di quella jouissance (Lacan) che assoggetta il corpo immettendolo in un movimento interminabile di ricerca del godimento. Si tratta della strategia giocata dalla controrivoluzione neoliberista degli anni Ottanta, che puntava a colonizzare il cuore e l’anima, sintetizzata dalla famosa ingiunzione di Margaret Thatcher: «Arricchitevi!»
Dunque la trasformazione non potrà che prodursi nella capacità dei soggetti di sottrarsi a una enigmatica servitù volontaria, per cui si combatte ormai per la propria servitù come se si trattasse della propria libertà. Lo spazio di questa scommessa potrebbe essere proprio l’Europa, se questa si costruirà come spazio comune di «costituzione dei soggetti collettivi del cambiamento» e, aggiungiamo, come spazio poststatuale rigenerato dalla lezione di Machiavelli e quindi attraversato dai tumulti del comune.
Proprio alla questione dello spazio, e del suo rapporto con il tempo, o meglio allo spatial turn, è dedicato l’ultimo, importante, capitolo del libro, in parte anticipato in un articolo apparso sul numero 30 di alfabeta2.
Nicolas Martino
Pubblicato il 30 gennaio 2014 · in alfapiù, libri, rivista 

Giacomo Marramao
Dopo il Leviatano. Individuo e comunità
Bollati Boringhieri (2013),



mercoledì 19 febbraio 2014

Gelosia di vivere


Quel che mi stupisce sempre è la povertà delle nostre idee sulla morte mentre siamo cosi pronti a sottilizzare in altri argomenti. È un bene o è un male. Ne ho paura o la invoco (dicono). Ma questo prova anche che tutto ciò che è semplice ci supera. Che cos'è l’azzurro e che cosa pensare dell' azzurro? La stessa difficoltà per la morte. Della morte e dei colori, non sappiamo discutere. Pure, ciò che importa è quest’uomo davanti a me, pesante come la terra, che prefigura il mio avvenire. Ma posso pensarci veramente? Mi dico: io devo morire, ma non vuoi dire nulla, perché non arrivo a crederlo e non avere altro che l’esperienza della morte altrui. Ho visto della gente morire. Soprattutto, ho visto morire dei cani. Era toccarli che mi sconvolgeva. Allora penso: fiori, sorrisi, desideri di donne, e capisco che tutto il mio orrore di morire dipende dalla mia gelosia di vivere. Sono geloso di coloro che vivranno, per i quali fiori e desideri di donne avranno tutto il loro senso di carne e di sangue. Sono invidioso, perché amò troppo la vita per non essere egoista. Che m'importa dell’eternità? Un giorno si può essere in un letto e sentirsi dire: “Voi siete forte e io debbo essere sincero con voi: posso dirvi che state per morire;” essere là con tutta la propria vita tra le mani, la paura nelle viscere e uno sguardo idiota. Che significato ha il resto? Fiotti di sangue mi pulsano alle tempie e mi sembra che potrei schiacciare tutto intorno a me.

Ma gli uomini muoiono loro malgrado, nonostante te cose di cui si circondano. Si dice loro: “Quando sarai guarito...,” e muoiono. Io non voglio questo. Perché, se esistono giorni in cui la natura mente, esistono giorni in cui dice il vero Djemila dice il vero questa sera, e con quale triste e insistente bellezza! 
Quanto a me, davanti a questo mondo, non voglio mentire ne che mi si menta. Voglio portare la lucidità sino in fondo e guardare la fine profondendo tutta la mia gelosia e il mio orrore. Ho paura della morte nella misura in cui mi separo dal mondo, nella misura in cui mi affeziono alla sorte degli uomini che vivono, invece di contemplare il ciclo che dura. Creare delle morti coscienti significa diminuire la distanza che ci separa dal mondo, e entrare senza  gioia nel compimento, coscienti delle immagini che esaltano un mondo perduto per sempre. E il canto triste delle colline di Djemila mi imprime più profondamente nell'anima l'amarezza di questo insegnamento.


Albert Camus da “Il vento a Djemila” in L’Estate e altri saggi solari, Bompiani, 1989

martedì 18 febbraio 2014

Giacometti la combustione muta

Le scrivo, Monsieur Dupin, per declinare il suo gentile invito. Non sono assolutamente in grado di scrivere per l'«Ephémère» un articolo sulla leggerezza della materia. Anzi, potrei dire di essere il meno adatto a scriverlo... Le spiegherò. All'inizio ero ossessionato dal bianco dei fogli. Mi accecava, il bianco. Spaventato da quella luce, la annerii con tratti forti di matita. Creai una folla di segni, di foglie, di oggetti, che talvolta erano volti e corpi, talvolta no, erano qualcosa di pullulante di ossessivo di interminabile, che si muoveva da sé, che occupava tutto il foglio, dove la matita poteva delirava e colmava, faceva emergere e distruggeva, e questo mi dava un senso di ebbrezza, mi sentivo sovrano della carta, era meraviglioso. Anche se poi il foglio, annerito di segni, restava così, fermo davanti a me, come un blocco muto, una roccia che non potevo scalfire, qualcosa di minerale o di vegetale, una pietra liscia e nera, senza aperture, che non risponde alla mia voce... Fu nella disperazione di quel silenzio che, all'improvviso, sentii crepi-tare le cose. Fu un momento terribile. Ritornò il bianco. Esigente, assoluto. E quel giorno, non potei che fare un volto sottile, un profilo aguzzo. Lasciai i fogli e misi mano ad altre materie. Scolpii. Sentivo che si consumavano, nelle mie statue, incendi terribili; silenziose ma assolute le fiamme ardevano sempre, invisibili a tutti ma non a me, che ne avvertivo il fruscio, il crepitio, il fragore; percepivo i colpi secchi del legno che brucia, si spacca, cade al suolo, i piccoli urli dei bambini, gli urli disperati degli adulti. Fu allora che cominciai a dare al bronzo – alla materia dei monumenti – l'apparenza che ora vi sconvolge: questa esistenza atroce, da oggetto bruciato, che persiste nel suolo e nella terra dove è andato in fiamme, che non rinuncia a denunciare l'incendio che Io ha scorticato fino all'osso e che continua a scorticarlo, eternamente presente. Ecco, io sono testimone di questo fuoco che distingue e che elegge. Non c'è, più, in me, un'acqua che salvi, un'aria dove essere in volo ma figure che esigono di mostrarsi; figure, sempre, con un corpo attaccato alla terra, pesante e sottile, che non può non esibire il suo dolore, che non si cancella mai e resta — sepolcro, testimonianza, emblema di un'arte che non immagina nulla dietro di sé. Pochi hanno visto nella mia opera questa struttura colossale, scuoiata dalla sofferenza. Io ho fissato il fuoco, per sempre. Altri hanno fatto lo stesso per l'aria o per l'acqua. Non a caso, ho vissuto in una tana, attaccatissimo alla terra. E qui, in questa tana, sento voci che mi sconvolgono — voci che mi parlano d'altro, di rapporti con la musica e il timbro delle cose, di suoni morbidi e freschi, estranei alla mia lingua di pietra, al mio fuoco di bronzo. Ma io resto qui. Ormai non posso rinunciare alle forme dove mi sono scorticato vivo. Non conosco altri mondi che il mio. Sono un povero contadino. Perciò devo ripetervi di no, Dupin: non mi chiedete quell'articolo sulla leggerezza e sugli spazi, sui segreti dell'aria. Non potrei scriverlo. Forse – e non è follia la mia affermazione – lo potrebbe Brancusi, Ubac, Valmont. Certo, non io. Io potrei parlarvi – se il tempo me lo consentirà – del fuoco che brucia i campi e non permette al seme di nascere. 


Marco Ercolani, Riga n° 11 Riga Books Antologia 

lunedì 10 febbraio 2014

Parole e Alberi


C’è una pagina in Avventure in Africa che rileggo spesso. Celati arriva a St Louis in Senegal, osserva quello che ha davanti e lo descrive. Mi piace immaginare che il suo sguardo sia collegato alla mano, che registra nell’ottavo taccuino le cose e le azioni che avvengono davanti ai suoi  occhi. Cose qualunque e azioni normali, raccolte senza aggettivi né affettazione né giudizi: “Una donna che spulciava il figlio sul gradino di casa, le capre che mangiavano bucce di banana,… la sfilata di alberi dell’Avenue Mermoz,… le ombre della grandi acacie, tamerici, cespugli di eucalipti”. Si va avanti così per diverse righe, regalando a chi legge la possibilità di vedere quello che lo scrittore registra con il pudore e il rispetto dell’osservatore curioso e discreto. E il quadro di quella città prende forma nella mente del lettore seguendo il ritmo lento della matita che anziché disegnare scrive nomi. Nelle ultime tre righe della pagina c’è uno scarto improvviso, e quel mondo è violato da un furto: “Finché non è arrivato rombando il fuoristrada degli americani, e l’americana senza scendere ha filmato tutto”.
La contrapposizione tra una pratica rispettosa dello sguardo e l’atto tracotante di chi si vuole impossessare di qualcosa senza degnarsi di neppure guardarla  è una pagina esemplare  su che cosa possa essere una scrittura profondamente etica, che ci interroga.

Una volta mi è capitato di pranzare con Celati e, dopo pranzo, di fare con lui una passeggiata nelle colline dell’Appennino emiliano. Conoscendo i suoi scritti e il suo amore per il camminare, pensavo a una lunga passeggiata verso Canossa. E invece restammo imprigionati nel primo boschetto dietro casa per qualche ora, semplicemente a togliere edera, vitalba e altre piante infestanti da querce, olmi, frassini, aceri campestri, ciliegi selvatici. Era stata un sua idea o forse soltanto una reazione spontanea, non meditata, a un suo modo di guardare le cose. Appena cominciata la passeggiata aveva visto questi alberi sommersi dai rampicanti, forse sofferenti, certo costretti; e aveva cominciato con le mani a disbrogliare gli intrecci di liane e rami che salivano sui tronchi fino alle foglie in alto. E la contentezza che provava nel liberare questi alberi dalle loro incrostazioni fu contagiosa per me e per chi era con noi. E ci trovammo tutti a tirare queste liane, a sfrondare gli alberi da questi parassiti indesiderati che, alla lunga, li avrebbero soffocati.


Mi è sembrato quello un atto che solo chi è abituato a osservare con rispetto il mondo riesce a pensare. Un atto che richiede delicatezza, perché sfilando le liane e l’edera non si vogliono strappare anche le foglie o i rami degli alberi. Un atto che ha bisogno di tempo. Così come di tempo ha bisogno il tradurre, il raccontare, che è qualcosa di diverso, forse, dal riempire file di fotografie o scaffali di pubblicazioni, senza mai scendere dal fuoristrada, senza mai davvero accordarsi con il ritmo delle cose.

giovedì 6 febbraio 2014

Se devo essere insincero



Quando sento qualcuno che comincia a parlare dicendo Onestamente, mi vien da pensare a come sarebbe se qualcuno cominciasse a parlare dicendo Disonestamente. E quando sento qualcuno che comincia a parlare dicendo A dire il vero, mi vien da pensare a come sarebbe se qualcuno cominciasse a parlare dicendo A dire il falso. E quando sento qualcuno che comincia a parlare dicendo Se devo dir la verità, mi vien da pensare a come sarebbe se qualcuno cominciasse a parlare dicendo Se devo raccontare una balla. E delle altre cose.