C’è una pagina in Avventure
in Africa che rileggo spesso. Celati arriva a St Louis in
Senegal, osserva quello che ha davanti e lo descrive. Mi piace immaginare che
il suo sguardo sia collegato alla mano, che registra nell’ottavo taccuino le
cose e le azioni che avvengono davanti ai suoi occhi. Cose qualunque e
azioni normali, raccolte senza aggettivi né affettazione né giudizi: “Una donna
che spulciava il figlio sul gradino di casa, le capre che mangiavano bucce di
banana,… la sfilata di alberi dell’Avenue Mermoz,… le ombre della grandi acacie,
tamerici, cespugli di eucalipti”. Si va avanti così per diverse righe,
regalando a chi legge la possibilità di vedere quello che lo scrittore registra
con il pudore e il rispetto dell’osservatore curioso e discreto. E il quadro di
quella città prende forma nella mente del lettore seguendo il ritmo lento della
matita che anziché disegnare scrive nomi. Nelle ultime tre righe della pagina
c’è uno scarto improvviso, e quel mondo è violato da un furto: “Finché non è
arrivato rombando il fuoristrada degli americani, e l’americana senza scendere
ha filmato tutto”.
La contrapposizione tra una pratica rispettosa dello
sguardo e l’atto tracotante di chi si vuole impossessare di qualcosa senza
degnarsi di neppure guardarla è una pagina esemplare su che cosa
possa essere una scrittura profondamente etica, che ci interroga.
Una volta mi è capitato di
pranzare con Celati e, dopo pranzo, di fare con lui una passeggiata nelle
colline dell’Appennino emiliano. Conoscendo i suoi scritti e il suo amore per
il camminare, pensavo a una lunga passeggiata verso Canossa. E invece restammo
imprigionati nel primo boschetto dietro casa per qualche ora, semplicemente a
togliere edera, vitalba e altre piante infestanti da querce, olmi, frassini,
aceri campestri, ciliegi selvatici. Era stata un sua idea o forse soltanto una
reazione spontanea, non meditata, a un suo modo di guardare le cose. Appena
cominciata la passeggiata aveva visto questi alberi sommersi dai rampicanti,
forse sofferenti, certo costretti; e aveva cominciato con le mani a
disbrogliare gli intrecci di liane e rami che salivano sui tronchi fino alle
foglie in alto. E la contentezza che provava nel liberare questi alberi dalle
loro incrostazioni fu contagiosa per me e per chi era con noi. E ci trovammo
tutti a tirare queste liane, a sfrondare gli alberi da questi parassiti
indesiderati che, alla lunga, li avrebbero soffocati.
Mi è sembrato quello un
atto che solo chi è abituato a osservare con rispetto il mondo riesce a
pensare. Un atto che richiede delicatezza, perché sfilando le liane e l’edera
non si vogliono strappare anche le foglie o i rami degli alberi. Un atto che ha
bisogno di tempo. Così come di tempo ha bisogno il tradurre, il raccontare, che
è qualcosa di diverso, forse, dal riempire file di fotografie o scaffali di
pubblicazioni, senza mai scendere dal fuoristrada, senza mai davvero accordarsi
con il ritmo delle cose.