Le scrivo, Monsieur
Dupin, per declinare il suo gentile invito. Non sono assolutamente in grado di
scrivere per l'«Ephémère» un articolo sulla leggerezza della materia. Anzi,
potrei dire di essere il meno adatto a scriverlo... Le spiegherò. All'inizio
ero ossessionato dal bianco dei fogli. Mi accecava, il bianco. Spaventato da
quella luce, la annerii con tratti forti di matita. Creai una folla di segni,
di foglie, di oggetti, che talvolta erano volti e corpi, talvolta no, erano
qualcosa di pullulante di ossessivo di interminabile, che si muoveva da sé, che
occupava tutto il foglio, dove la matita poteva delirava e colmava, faceva
emergere e distruggeva, e questo mi dava un senso di ebbrezza, mi sentivo
sovrano della carta, era meraviglioso. Anche se poi il foglio, annerito di
segni, restava così, fermo davanti a me, come un blocco muto, una roccia che
non potevo scalfire, qualcosa di minerale o di vegetale, una pietra liscia e
nera, senza aperture, che non risponde alla mia voce... Fu nella disperazione
di quel silenzio che, all'improvviso, sentii crepi-tare le cose. Fu un momento
terribile. Ritornò il bianco. Esigente, assoluto. E quel giorno, non potei che
fare un volto sottile, un profilo aguzzo. Lasciai i fogli e misi mano ad altre
materie. Scolpii. Sentivo che si consumavano, nelle mie statue, incendi
terribili; silenziose ma assolute le fiamme ardevano sempre, invisibili a tutti
ma non a me, che ne avvertivo il fruscio, il crepitio, il fragore; percepivo i
colpi secchi del legno che brucia, si spacca, cade al suolo, i piccoli urli dei
bambini, gli urli disperati degli adulti. Fu allora che cominciai a dare al
bronzo – alla materia dei monumenti – l'apparenza che ora vi sconvolge: questa
esistenza atroce, da oggetto bruciato, che persiste nel suolo e nella terra
dove è andato in fiamme, che non rinuncia a denunciare l'incendio che Io ha
scorticato fino all'osso e che continua a scorticarlo, eternamente presente.
Ecco, io sono testimone di questo fuoco che distingue e che elegge. Non c'è,
più, in me, un'acqua che salvi, un'aria dove essere in volo ma figure che
esigono di mostrarsi; figure, sempre, con un corpo attaccato alla terra,
pesante e sottile, che non può non esibire il suo dolore, che non si cancella
mai e resta — sepolcro, testimonianza, emblema di un'arte che non immagina
nulla dietro di sé. Pochi hanno visto nella mia opera questa struttura
colossale, scuoiata dalla sofferenza. Io ho fissato il fuoco, per sempre. Altri
hanno fatto lo stesso per l'aria o per l'acqua. Non a caso, ho vissuto in una
tana, attaccatissimo alla terra. E qui, in questa tana, sento voci che mi
sconvolgono — voci che mi parlano d'altro, di rapporti con la musica e il
timbro delle cose, di suoni morbidi e freschi, estranei alla mia lingua di
pietra, al mio fuoco di bronzo. Ma io resto qui. Ormai non posso rinunciare
alle forme dove mi sono scorticato vivo. Non conosco altri mondi che il mio.
Sono un povero contadino. Perciò devo ripetervi di no, Dupin: non mi chiedete
quell'articolo sulla leggerezza e sugli spazi, sui segreti dell'aria. Non
potrei scriverlo. Forse – e non è follia la mia affermazione – lo potrebbe
Brancusi, Ubac, Valmont. Certo, non io. Io potrei parlarvi – se il tempo me lo
consentirà – del fuoco che brucia i campi e non permette al seme di
nascere.
Marco Ercolani, Riga n° 11 Riga Books Antologia