"The
horror! The horror!" Le ultime parole pronunciate da Kurtz nello straordinario
romanzo di Joseph Conrad svelano inequivocabilmente il «cuore di tenebra» della
cultura occidentale che è al centro della ricerca filosofica e politica di
Giacomo Marramao (come si dispiega in questo volume del 1995, ora ripensato e assai
ampliato): la logica dell’identità e della reductio ad unum. Una
logica intorno alla quale si è organizzata una Modernità che attraverso
l’ordine Sovrano ha creato il Pubblico e il Privato, il Popolo e l’Individuo,
lo Stato e l’Identità, maledicendo la moltitudine della «differenza».
Una
ricerca tesa a restituire la profondità di campo del Moderno, a dispetto di
tutte le retoriche postmoderne del dissolvimento e oltrepassamento della
modernità. Distante dall’abbandono «debolista» alla deriva dell’esistente, ma
anche da quelle posizioni che leggono la modernità come progetto incompiuto da
rilanciare attraverso un paradigma comunicativo-consensuale, e sempre attenta a
bypassare gli idola del postmoderno come quelli della modernità. Già,
perché la condizione postmoderna si rivela ben poco radicale, soggiacendo in
realtà alla condizione moderna, tanto che, avrebbe detto Michelstaedter, «non
può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende e quanto pende dipende».
Ecco
quindi che il «futurismo» del Progetto moderno e il «presentismo»
dell’Antiprogetto postmoderno si rivelano essere i due lati dello stesso
processo moderno di temporalizzazione della «catena dell’Essere», e il
multiculturalismo dei «ghetti contigui», delle differenze che rivendicano la
loro specificità rapportandosi le une alle altre come «monadi senza porte né
finestre», riproduce e moltiplica in sedicesimo la stessa logica identitaria
moderna. Colonizzazione del futuro ed eternizzazione del presente, individuo e
comunità, si rapportano l’un l’altro come in un gioco di specchi o double
bind.
Ecco
perché, ora che siamo oltre la soglia dello Stato-Leviatano, e la Modernità si
è trasformata in una Modernità-Mondo, risultano sterili e retorici i superamenti
e i rovesciamenti. Bisogna invece lavorare a uno spostamento laterale,
e dall’interno stesso della ipermodernità aprire la breccia all’universalismo
della differenza (al singolare): una sintesi disgiuntiva distinta «per un
verso dall’universalismo dell’identità di stampo illuministico, per l’altro dall’antiuniversalismo
delle differenze di stampo multiculturalista».
Questa
la proposta avanzata dopo una densa e poderosa analisi della patogenesi del
Moderno che attraversa, tra gli altri, Schmitt e Foucault, Weber e la Scuola di
Francoforte, gli austromarxisti e i politologi e giuristi weimariani, compresa
una preziosa rilettura dell’opera di Borkenau, La transizione dall’immagine
feudale all’immagine borghese del mondo (1934) e della polemica che oppose
Borkenau e Grossmann intorno al problema dei rapporti fra struttura sociale e
sovrastrutture filosofiche. Tanto più affascinante oggi quando ci troviamo ad
attraversare un’altra transizione.
Per
chiudere, un’ultima osservazione: Marramao giustamente sottolinea come a
differenza delle rivoluzioni moderne, che ponevano al primo posto il
cambiamento delle strutture, ora è invece necessario spostare l’attenzione
sulla costituzione dei soggetti. E in questo senso risulterebbe particolarmente
produttivo indagare la natura paradossale di quella jouissance (Lacan)
che assoggetta il corpo immettendolo in un movimento interminabile di ricerca
del godimento. Si tratta della strategia giocata dalla controrivoluzione
neoliberista degli anni Ottanta, che puntava a colonizzare il cuore e l’anima,
sintetizzata dalla famosa ingiunzione di Margaret Thatcher: «Arricchitevi!»
Dunque
la trasformazione non potrà che prodursi nella capacità dei soggetti di
sottrarsi a una enigmatica servitù volontaria, per cui si combatte ormai
per la propria servitù come se si trattasse della propria libertà. Lo spazio di
questa scommessa potrebbe essere proprio l’Europa, se questa si costruirà come
spazio comune di «costituzione dei soggetti collettivi del cambiamento» e,
aggiungiamo, come spazio poststatuale rigenerato dalla lezione di Machiavelli e
quindi attraversato dai tumulti del comune.
Proprio
alla questione dello spazio, e del suo rapporto con il tempo, o meglio allo spatial
turn, è dedicato l’ultimo, importante, capitolo del libro, in parte
anticipato in un articolo apparso sul numero 30 di alfabeta2.
Nicolas Martino