Buongiorno.
Grazie dell’invito. Io mi
chiamo Paolo Nori, sono di Parma, abito a Casalecchio di Reno, vicino a
Bologna, e scrivo dei libri, dei romanzi, prevalentemente, ma anche dei
discorsi, e oggi mi hanno chiesto di scrivere un piccolo discorso che abbia
come tema il tema di questo incontro che chiude la festa di Left, che è Le cose
si cambiano, cambiandole.
Ecco, Left è una rivista
politica, quelli che parteciperanno al dibattito son tutte persone che, in
diversi modi, sono tutti, come di dice, attivi in politica, e noi siamo
abituati a pensare che la politica sia il posto dove, per antonomasia, si
cambian le cose, e mi vengono in mente due cose, mia nonna, che, quando io mi
son laureato a lei le sembrava una cosa così grande, il fatto che mi fossi
laureato, le sembrava che io fossi diventato così bravo, laureandomi, che mi
diceva che senz’altro sarei andato in parlamento e io le dicevo No nonna, farò
poi dell’altro, e infatti è andata così, ho poi fatto dell’altro, e la seconda
cosa che mi viene in mente è Pietro Nenni, che, come si sa, quando i socialisti
sono entrati per la prima volta al governo e gli hanno chiesto cosa succedeva
nella stanza dei bottoni lui ha detto che, entrando al governo, lui si era
accorto che, nella stanza dei bottoni, non c’eran bottoni e io, adesso, una
cosa che vorrei chiedere, a quelli che parteciperanno al dibattito dopo, cioè Pippo
Civati, Giulio Cavalli, Adriano Zaccagnini,
Mirko
Tutino, Paola Natalicchio, Giovanni Tizian, che ciascuno dal suo punto di
osservazione ne sanno molto più di me, volevo chiedergli se ce li hanno messi,
i bottoni, nella stanza dei bottoni, perché io, l’impressione che ho, di
politica io ne so molto poco ma se il motivo per cui vale la pena di fare
politica è cambiare le cose, io vorrei capire in che senso vi sembra che si
possano cambiare le cose.
Allora, io, come ho detto,
ne capisco poco, ma per quel poco che ne capisco, un grande libro politico è un
libro di Tolstoj che si intitola Che fare? e è un libro che racconta cosa
succede a Tolstoj quando si accorge che al mondo ci sono un sacco di poveri, e
si mette in testa di provare a aiutarli.
Comincia a dargli dei
soldi, ma si accorge che questi soldi, loro, li bevono, in Russia bevono, hanno
questa abitudine che bevono e le cose, dopo un po’, Tolstoj, si accorge che non
sono cambiate e allora, non se la prende con le cose, né se la prende con
quelli che bevono, ma a un certo momento si chiede, dentro il suo libro: Chi sono io, io che voglio
aiutare gli uomini? Voglio aiutarli, e mi alzo a mezzogiorno, dopo
un’interminabile partita di whist, infiacchito, molle, bisognoso dei servigi e
dell’aiuto di centinaia di persone; e vengo ad aiutare – chi poi? Uomini che si
alzano alle cinque; che dormono su tavole, che mangiano pane e cavoli, che
sanno arare, falciare, immanicare la scure, squadrare, aggiogare cucire; uomini
che per padronanza di sé, per forza, per abilità, per temperanza, valgono cento
volte più di me, e io voglio aiutarli! Cosa altro, se non vergogna, posso
provare quando entro in rapporto con loro? Tutta la mia vita passa così:
mangio, parlo, ascolto; mangio, scrivo e leggo, cioè ancora parlo e ascolto;
mangio, gioco, mangio, di nuovo parlo, e ascolto, mangio e di nuovo vado a
dormire, e così ogni giorno, e non posso e non so fare altro. E perché possa
permettermi di fare tutto questo, occorre che dalla mattina alla sera lavorino
per me il portiere, l’inserviente, la cuciniera, il cuoco, il lacchè, il
cocchiere, la lavandaia; per non parlare degli operai necessari a produrre gli
oggetti di cui questi cocchieri, cuochi, lacchè hanno bisogno per lavorare per
me: martelli, botti, spazzole, vasellame, legname, carne di bue. Ognuno di loro
lavora duramente tutto il giorno e tutti i giorni perché io possa parlare,
mangiare, dormire; e proprio io, questo individuo gramo, ho immaginato di poter
aiutare gli altri, quegli stessi uomini che mi nutrono.
Non è straordinario che io
non abbia aiutato nessuno e che abbia provato vergogna; la cosa più
straordinaria è che mi possa essere venuta in mente un’idea tanto assurda scriveva
Tolstoj nel 1886 e a me vien da pensare, ogni volta che penso a questo
passaggio, che se lui, Tolstoj, che era Tolstoj, sapeva di non esser capace di
fare niente, a me mi viene da chiedermi, come possiamo noi, che non siamo
Tolstoj, pensare di essere capaci di fare qualcosa? Io, parlo per me, mi sento
ridicolo, a pensare così, e mi viene da chiedermi Non siamo tutti ridicoli,
noi, se pensiamo di esser capaci di fare qualcosa? Cioè che magari siam capaci,
di farla, io per esempio, nel mio piccolo, recentemente, una cosa che ho fatto,
un paio di anni fa, ho smesso di fumare, e ho smesso poco dopo che sono state
emanate, come si dice, le leggi antifumo, ma se mi chiedo perché ho smesso, mi
vien da pensare che non ho smesso per le leggi antifumo, né perché hanno
aumentato il prezzo delle sigarette, ho smesso perché me l’ha chiesto mia
figlia, e me l’ha chiesto in un modo che ho capito che, questa cosa che fumavo,
la faceva star male, e la cosa che mi vien da pensare è che quelli che mi
governano, quelli che schiacciano i miei bottoni, ha molti più bottoni mia
figlia, del parlamento, o della corte costituzionale, è molto più importante,
per guidare il mio comportamento, per indicarmi una strada, la testa di mia
figlia, che la testa di Enrico Letta, o di Giorgio Napolitano e di Laura
Boldrini, con tutto il rispetto per Enrico Letta e anche per gli altri, e
allora la cosa che mi viene da chiedermi, in una situazione del genere, non
credete che la vostra capacità di cambiare le cose sia indipendente dal fatto
che voi, con ruoli diversi, siete nelle istituzioni?
Mi viene in mente quel
passo di Guerra e Pace di Tolstoj, dove Pierre Bezuchov, il protagonista, è
stato catturato dai francesi nel corso della campagna napoleonica, e è lì, di
notte, nel recinto dei prigionieri, prigioniero dei francesi, i francesi hanno
in mano tutta la sua bottoniera, sono arbitri della sua vita e della sua morte,
come si dice, e lui è lì, che guarda il cielo stellato e, tutto d’un tratto,
scoppia a ridere. E ride forte, e a lungo. E ride per questo pensiero, che gli
è venuto: Ma la mia anima immortale, come fanno a tenerla prigioniera? Che è
una bella domanda, mi sembra, dopo la quale andare avanti è difficile ma io ci
vado lo stesso.
Da "Una regola" discorso pronunciato a Roma, alla Città dell’altra economia il 14 settembre del 2013 come introduzione al dibattito che chiude
la festa di Left-avvenimenti al quale partecipano Pippo Civati, Adriano Zaccagnini, Mirko Tutino, Giulio Cavalli, Paola Natalicchio e Giovanni Tizian
e poi ripronunciato a Cagliari, nella sede dall’associazione Asibiri il 16 novembre 2013
e poi ripronunciato a Cagliari, nella sede dall’associazione Asibiri il 16 novembre 2013