“Ma con cosa credi di
capire?
Con la testa? Bah!”
da «Zorba il greco»
di
Nikos Kasantzakis
In una limpida mattina
newyorkese dei primi anni ’80 fui invitato a casa da Rosemary Feitis – che
conosceva il mio specifico interesse per il tessuto connettivo e le sue
implicazioni – per provare una nuova forma di terapia craniosacrale apparsa di
recente.
Le sensazioni provate
durante la seduta erano state abbastanza interessanti, ma la parte più
intrigante doveva ancora arrivare. Infatti quando mi rimisi in piedi sentivo
testa e volto molto differenti da prima (e anche alquanto asimmetrici) e mi guardai
allo specchio per verificare se le mie sensazioni soggettive avessero un
qualche riscontro oggettivo.
Effettivamente l’occhio
destro era molto più cupo e torvo ed il sopracciglio corrispondente decisamente
più basso e chiuso (classici sintomi di una marcata torsione dello sfenoide,
l’osso chiave di volta dell’intera struttura craniale). In quel momento mi
sarei aspettato che il ribilanciamento dovesse passare attraverso un’ulteriore
manipolazione, mentre l’imprevisto suggerimento di Rosemary fu qualcosa del
genere: “Prova a ‘ribaltare’ indietro l’emisfero destro”.
Confesso che il primo
impulso (e forse anche il secondo) fu quello di pensare a come avevo potuto non
accorgermi, negli anni in cui ci eravamo frequentati e avevamo lavorato
insieme, che fosse pazza. Considerato però che in precedenza aveva sempre dato
prova di spessore e credibilità provai – con molto scetticismo, lo ammetto –, a
fare ciò che mi sembrava una delle tante trovate new age che andavano di moda
in quel periodo.
La sensazione interna
cambiò radicalmente. “Caro vecchio amico placebo...”, pensai subito, certo che
si trattasse di semplice suggestione. Salvo poi rimanere di stucco quando,
trovandomi nuovamente di fronte allo specchio, notai una decisa
riorganizzazione delle ossa craniche, ottenuta nel giro di pochi secondi e
senza alcuna tecnica manuale, per cui la struttura del cranio era tornata
simmetrica.
Oggi, grazie alle
ricerche che nel frattempo sono state condotte sul tessuto connettivo, mi
risulterebbe più semplice descrivere anche in termini anatomici e fisiologici
come e perché si fosse potuto verificare questo cambiamento, ma ai tempi potevo
solo pensare che o si era trattato di un’illusione, o il modo che abbiamo di
pensare al corpo è molto diverso e assolutamente riduttivo rispetto alla sua
effettiva realtà.
Lo studio del corpo e
dell’anatomia per via esperienzale non mi lasciarono molti dubbi su quale fosse
la risposta corretta. L’esperienza che avevo appena vissuto appariva
estremamente bizzarra e stravagante rispetto alla mia formazione scientifica,
ma al tempo stesso, e paradossalmente, quanto di più semplice, ovvio e naturale
si potesse immaginare.
L’approccio
esperienziale all’anatomia cambia radicalmente la comprensione del corpo. I
primi anni che ho dedicato all’esplorazione del corpo in questo senso sono
stati di vera e propria ri-programmazione delle conoscenze tradizionali.
Le cose stanno infatti
in modo davvero molto diverso da come viene ancora insegnato nelle professioni
mediche e paramediche. Buona parte dei paradigmi anatomici a cui facciamo
riferimento non sono soltanto superati. Sono fuorvianti.
Questo ha permesso quindi
di creare una continuità tra scienza ed esperienza, là dove nel caso di molte
tecniche, prima esisteva invece un profondo canyon valicabile solo con la fede
e l’adozione di linguaggi arcani o appartenenti a culture estremamente
differenti dalla nostra.
Torniamo ad esempio al
‘ribaltamento’ dell’emisfero cerebrale citato nell’aneddoto iniziale: è
ovviamente del tutto inspiegabile o enigmatico secondo la visione medica
classica di un cervello inerte e insensibile sospeso in un liquido, chiamato
cefalorachidiano, all’interno di una scatola, chiamata cranio. Vengono in mente
quei vecchi film di fantascienza dove cervelli galleggiano in liquidi
sconosciuti dentro scatole trasparenti.
Se invece pensiamo che
il cervello è costituito per la gran parte da tessuto connettivo contrattile e
sensibile (glia), coordinato dal sistema nervoso che ne ottimizza la forma e le
caratteristiche a seconda delle necessità, l’idea di un cervello non
meccanicamente passivo ci appare decisamente meno assurda di prima.
Ok, il corpo non è come
pensavamo e allora? C’è un piccolo ma fondamentale corollario a questo fatto:
se è possibile percepire in maniera precisa la diversa organizzazione interna
che il corpo assume in relazione alle diverse situazioni, quello con cui ci
ritroviamo non è solo un corpo diverso, ma anche un potente mezzo di indagine e
di penetrazione della realtà e della cultura.
Corpo-Mente-Spazio-Cultura
sono infatti in continua relazione e la possibilità di sentire e capire un polo
(il corpo) ci permette di capire tutti gli altri.
Il mio senso di
riconoscenza per l’anatomia esperienziale deriva proprio da questo. L’approccio
esperienziale all’anatomia mi ha consentito infatti di iniziare un percorso
professionale di ricerca che non ha “ribaltato” solo il mio emisfero cerebrale
destro, ma anche tutta la mia comprensione della psicoanalisi e della
psicoterapia, del nostro funzionamento psicologico e caratteriale, a partire
dall’osservazione che pensieri ed emozioni differenti emergono da corpi
differenti.
Mi ha dato gli strumenti
per esplorare quelle che in precedenza erano le inafferrabili relazioni
corpo-spazio, per cominciare finalmente a comprendere, sia esperienzialmente
che teoricamente, le misteriose regole del “genius loci” o del “feng-shuei”.
Per capire, sentendone l’effetto a livello fisico, le relazioni umane a un
livello diverso da quello che ero in grado di cogliere prima. Per percepire con
chiarezza perché i metodi tradizionali di insegnamento non possono che fallire
e per individuare un possibile sviluppo di stili didattici diversi,
neuro-ergonomici per l’organismo di chi apprende. Per notare come il nostro
modo di vestire non cambia solo il nostro aspetto esterno, ma anche il nostro
corpo e, di conseguenza, la nostra mente. Per rinnovare il rapporto con lo
sport che, esaurita la passione agonistica, stava diventando un’occupazione
sempre più noiosa e che invece si è rivelata una fonte inesauribile di piacere
e interesse per le continue trasformazioni e opzioni che si aprono all’interno
del corpo. Per riavvicinarmi e gustare a un altro livello tecniche corporee
occidentali, come ad esempio il metodo Feldenkrais e la terapia cranio-sacrale,
o orientali, come lo yoga e il tai-chi, che avevo praticato in precedenza e che
avevo poi abbandonato. Per ritrovare interesse per i viaggi, grazie alla
possibilità di leggere una cultura anche attraverso il corpo della popolazione
di cui è espressione. Per avere una nuova chiave di lettura delle relazioni tra
la politica, il corpo dei suoi leader e quello dei loro elettori. Per percepire
le malattie non come guasti accidentali dell’organismo causati da virus,
batteri, sfortuna, genetica o altro, ma come esito naturale di specifiche
organizzazioni e strategie fisiche e culturali. Per riscoprire forme
sofisticate di medicina, come quella tradizionale cinese, quella ayurvedica e
quella omeopatica – il cui studio avevo finito per trascurare perché mi
sembrava diventare sempre più un atto di fede – mentre ora risultavano
espressione chiara e naturale di quel nuovo intendimento.
Mi ha permesso infine di
cogliere che la spiritualità sentita – la percezione che tutte le persone e le
cose del mondo si appartengono e sono legate insieme (res-ligo, da cui la
parola religione) – non è l’esito di un allontanamento dal corpo, quanto invece
di un incarnarsi più profondamente in esso.
Jader Tolja
Dalla
postfazione al libro di Bonnie Bainbridge Cohen, Sensazione,
Emozione, Azione - Somatica Edizioni, 2011