lunedì 16 settembre 2013

Paolo Nori su uguali e diversi, un mondo fatto coi piedi,il sacro...


domenica 15 settembre 2013

[metto qui sotto…un pezzettino del discorso che ho fatto ieri a Roma, alla festa di Left, come introduzione a un dibattito del quale però io ho poi sentito solo dieci minuti perché, quando hanno cominciato a parlare di come son stati bravi a Molfetta a non far l'alleanza con l'Udc, sono andato a letto]

E un’altra cosa che non mi convince è l’atteggiamento generale, di alcuni dei politici nuovi, perché questi politici nuovi, in sostanza, quello che dicono, mi sembra, è che loro son diversi, dagli altri, cioè dai politici vecchi, solo che anche gli altri, quelli vecchi, dicono di essere diversi dagli altri, sia dai nuovi che dai vecchi altri da loro, allora dei politici veramente nuovi, mi sembra, quello che dovrebbero dire è che loro sono uguali, agli altri; non li voterebbe nessuno, però, probabilmente e si perderebbe così l’unica occasione di votare veramente il nuovo, la gente ha tanta voglia di nuovo, ma a parte quello, che pazienza, la cosa che mi convince meno, in questo fatto di proporre se stessi come diversi dagli altri, come: bravi, in sostanza, è che, necessariamente, questo fatto consiste nell’essere soddisfatti di sé e a me mi vien da pensare a una frase di Čechov, alla fine di un racconto che si intitola Uva spina, che è un racconto dove il protagonista è contento del pessimo vino che fa dall’uva spina e questo, scrive Čechov, è il dramma più terribile, che un uomo sia contento della propria esistenza. A me, ho studiato russo, e mi piacciono i russi, e capisco Turgenev quando dice: «L’uomo russo è buono soprattutto per il fatto di avere di se stesso una pessima opinione», e io, in una cosa del genere, mi ci trovo, e per uno che è soddisfatto di sé ho un’istintiva diffidenza, mentre per uno che ha, di sé, una pessima opinione, ho un istintivo rispetto.

Un paio di anni fa un mio amico che lavora alla galleria d’arte moderna di Modena mi ha chiesto un testo per una mostra che facevano loro sul sacro e io ho cominciato un po’ a ragionare sul sacro e ho pensato che quello che manca, nelle nostre, come dire, vite, si fa fatica anche a pronunciarle, queste parole, La mia vita, per non parlare della morte, La mia morte, La morte di mio babbo, e anche La morte, da sola, ecco io ho pensato che quello che manca, forse, a parte le autorità, che son sparite, non ci sono più, c’è stato un momento che ci sono state, forse, oggi non c’è più nessuna autorità, a parte quello, che quello lo sappiamo, oggi, forse, quello che manca, mi è venuto da pensare, è il sacro, quel che abbiamo di sacro, ma non quello che c’è dentro la testa, che lì ciascuno ha la propria testa, che per uno è la patria, per uno è la famiglia, per uno è la legge, per uno è la libertà, per uno è Dio, quanto spazio prende Dio, nei miei discorsi, io non parlavo dei discorsi, parlavo delle vite, dei nostri momenti, quando il mondo, si fa fatica a pronunciarla, questa parola, Mondo, quando il mondo ti dà una botta, come se ti dicesse che esiste, come se ti tirasse fuori dai tuoi pensieri, come se ti tirasse la giacca, se tu avessi una giacca, e ti si manifestasse, nel senso che è lì, e c’era anche prima, e tu te l’eri scordato, e ti accorgi che suona, il rumore delle sfere, che delle volte si va a nascondere in cose minuscole, in momenti che non l’avresti mai detto, come quando stendi il bucato, e poi esci e torni a casa e senti odore di sapone di Marsiglia, o come quando hai un computer nuovo e stai caricando il programma di scrittura, o come quando sei in giro, in centro, con tua figlia, e ti volti a vedere se è dietro di te e la vedi e ti vien da pensare “Ma com’è bella”, o come quando firmi un contratto di allacciamento del gas, o quando vedi che gli alberi sono diversi e pensi L’autunno ha cambiato il giardino. Tutte le volte che ti svegli che hai fame. Quando senti qualcuno che sta attento a quello che dice. Quando ti rammendi le tasche della giacca. Quando si beve il primo vino dell’anno, hai vent’anni, e sembra un succo di frutta, sì e no cinque gradi. Quando stai per lasciare l’appartamento nel quale hai abitato tre anni, fai l’ultimo giro e trovi il mozzicone di candela che avevi usato il primo giorno che c’eri entrato, che non ti avevano ancora attaccato la corrente. Quando stai stendendo i panni e ti sorprendi a cantare. Quando sei in giro, al mattino, per il centro, e tutti i posti in cui devi andare sono ancora chiusi, e entri in un bar, e ti ci fermi mezz’ora, e ci trovi una folla di pensionati che gira intorno ai quotidiani come i bambini, con la bella stagione, intorno alle altalene dei giardini pubblici. Quanto tuo babbo ti chiama Ligera, hai tre anni, e tu pensi che voglia dire cravatta, e sei contento che tuo babbo scherza con te. Quando esci da lavorare, hai sedici anni, hai fatto otto ore in un prosciuttificio, e adesso vai a casa, e se così contento che ti strapperesti i capelli. Quando sei a letto, e sei stanco, e dici alla tua gatta, che ha quattordici anni, Vieni qui, e la gatta vien lì. Quando sei sulle spalle di tuo nonno, e fate una gara di corsa, e tu e tuo nonno vincete, e tu eri il più piccolo e non vincevi mai. Quando su per una salita, sull’appennino, è notte, hai ventisei anni, sei a piedi, per mano a una ragazza, e voltate l’angolo della strada e c’è un mare di lucciole, e non è normale, tutte queste lucciole, dev’esser successo qualcosa. Quando tagli il pane, certe volte. Quando sei da solo, e ti apparecchi. Quando parli e ti sembra di sentire la voce di tuo babbo, che è morto da undici anni.

Ecco. Quelle cose lì, secondo me, che sono le cose che mi parlano a me, sono tutte cose che mi parlano della mia debolezza e io, non ne so niente, ma ho l’impressione che un modo bello di cambiare le cose sarebbe bene che non partisse dalla presunzione che noi siamo bravi, ma dalla consapevolezza che siamo deboli, difettosi, insignificanti, e io ho l’impressione, magari mi sbaglio, ma ho l’impressione che la nostra debolezza, la nostra insignificanza, i nostri difetti, siano le cose più importanti che abbiamo e che abbiamo bisogno di quelle, non abbiamo bisogno di supereroi, e mi viene in mente una cosa che ha scritto lo scrittore americano Kurt Vonnegut che una volta ha scritto: «C’è un tragico difetto nella nostra preziosa Costituzione, e non so come vi si possa rimediare. È questo: solo gli scoppiati vogliono candidarsi alla presidenza. Ed era così già alle superiori. Solo gli alunni più palesemente disturbati si proponevano per fare i rappresentanti di classe», ha scritto Vonnegut, e io, probabilmente sono io, che me ne intendo poco, ma uno che le cose si propone di cambiarle dall’alto della sua infallibilità, o della sua superiorità morale, io, mi rendo conto che probabilmente sono io, ma io, se si parla per esempio di trasporto pubblico, a me piace la Russia, e se penso alla Russia che ho conosciuto io, mi viene in mente una volta che dovevo prendere un filobus, a San Pietroburgo, sulla prospettiva grande dell’isola Vasilevskij, sarà stato il 1996, pioveva, sono entrato sul filobus, era pieno, dappertutto, tranne un tondo di un metro di diametro che era vuoto perché in alto, sul soffitto, se così si può dire, c’era un buco. Allora loro cos’hanno fatto, i russi, hanno fatto un buco anche sotto, sul pavimento. E l‘acqua passava. E il filobus andava. E questa per me era la Russia e, con tutti i suoi difetti, era bellissima, e c’è uno scrittore russo che si chiama Sergej Dovlatov che una volta ha scritto: «Purtroppo non ci sono dati statistici certi su quali siano, in russo, le parole più o meno usate. Cioè tutti sanno, chiaramente, che la parola «merluzzo», per esempio, è significativamente più usata della parola, per dire, «sterletto», e la parola «vodka», diciamo, è più usuale di parole come «nettare» o «ambrosia». Ma di dati certi, ripeto, a questo proposito, non ne esistono. E è un peccato.
Se dati di questo genere esistessero, ci accorgeremmo che, per esempio, l’espressione «è un lavoro fatto coi piedi» è una delle espressioni più usate, in Unione Sovietica».


Ecco, a me un mondo fatto coi piedi così, non so perché, ma mi piace, mi sembra un mondo consonante con i nostri difetti, se così si può dire, e, se dovessi indicare, con tutta la mia insipienza, una regola, una direzione verso la quale muoversi, non saprei indicarla e ne prenderei a prestito una che ha individuato sempre Kurt Vonnegut, quando ha incontrato Joe. «Joe, – ha scritto Kurt Vonnegut, – un giovane di Pittsburgh, un giorno mi si è presentato con una semplice richiesta: «Per favore, mi dica che prima o poi finirà tutto bene».
«Benvenuto sulla Terra, giovanotto», gli ho risposto io. «Qui fa un caldo boia d’estate e un freddo cane d’inverno. È un pianeta rotondo, umido e affollato. Bene che vada, Joe, tu hai un centinaio di anni da vivere da queste parti. E di regola io ne conosco una sola: Cazzo, Joe, bisogna essere buoni!».

www.paolonori.it