venerdì 13 settembre 2013

La fine del mondo



Esiste una teoria secondo la quale se qualcuno scoprisse
esattamente il motivo di essere dell'Universo e perché esso sia
qui, quello istantaneamente scomparirebbe e sarebbe sostituito
da qualcosa di ancora più bizzarro e inspiegabile. Esiste poi
un'altra teoria secondo la quale tutto questo è già accaduto.

D. Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, 2000


Il più grande spettacolo dopo il Big Bang cominciò senza preavviso. In un'epoca primordiale che nessuno ricorda, un bolide roccioso di dieci chilometri di diametro si affacciò dallo spazio profondo e piombò in mezzo al mare, al largo della costa dello Yucatán. Una scia di fuoco illuminò ogni cosa. Fu come se milioni di bombe atomiche scoppiassero in un sol colpo, deflagrando nella più potente esplosione di tutti i tempi. In un battito di ciglia un'enorme palla di luce, più incandescente del Sole, vaporizzò l'oceano, aprendosi un cratere di 180 km di larghezza nella crosta terrestre. La superficie del pianeta si increspò e il fronte sismico fece più volte il giro del globo, innescando terremoti in ogni dove. L'onda d'urto si propagò a 30 km al secondo radendo al suolo in pochi attimi un'area grande come il Nord America. Tsunami colossali si alzarono per centinaia di metri, si misero a correre in tutte le direzioni e nelle ore successive si abbatterono sulle coste fino in Europa e in Africa. Le correnti d'aria impazzite fomentarono enormi uragani. L'atmosfera fu squarciata dall'alto e centinaia di trilioni di roccia fusa furono scagliati di rimbalzo nei suoi strati più esterni. I cieli si addensarono di rosso fulvo, di fuliggine e cenere. Ben presto le polveri velenose impregnarono l'aria e schermarono la luce del Sole in ogni angolo della Terra. Il primo trauma durò poco perché dal buio ridiscese ben presto un inferno di fiamme. Le rocce schizzate in atmosfera nell'esplosione furono di nuovo attratte verso il basso e cominciarono a piovere, infuocate, sulla superficie, disseminandola di incendi devastanti. Questi aumentarono ulteriormente la quantità di fumo e di polveri nell'aria. Un quarto della materia vivente venne ridotta in cenere. Foreste, boschi e praterie furono carbonizzati su tutti i continenti. Poi, con l'oscurità, il freddo prese il sopravvento. Le temperature medie del pianeta scesero di 15 gradi centigradi, come in una velocissima era glaciale. Le piogge acide avvelenarono gli oceani, estinguendo un'enorme quantità di specie marine. Le piante soffocarono e la fotosintesi fu ridotta al minimo. I grandi erbivori sopravvissuti all'impatto morirono progressivamente di fame, trascinando con sé gli equilibri delle catene alimentari globali. I ghiacci avanzarono, unendosi agli effetti mefitici dello zolfo e dell'anossia. Dopo anni di improvviso inverno glaciale — un tetro inverno cosmico — le polveri lentamente si posarono, ma non vi fu sollievo per i vivi perché ebbe inizio una subdola primavera ultravioletta. Il Sole colpiva ora inesorabilmente la superficie senza più la protezione dello strato di ozono, lacerato dagli effetti delle sostanze chimiche immesse in atmosfera dall'impatto. La carne viva degli organismi fu esposta a radiazioni letali e scottata nuovamente dal calore più insopportabile. Il fuoco e il freddo si alternarono per secoli, come piaghe bibliche. Nulla fu mai come prima. Più della metà delle specie, di ogni ordine e fattezza, dal plancton al dinosauro, non sopravvisse alla maledizione piovuta dal cosmo. Perché il mondo tornasse a respirare, ci vollero migliaia, forse milioni, di anni.



Dinanzi a uno scenario di questo tipo [McGuire 2003], è stupefacente che una qualche forma di vita sia riuscita a superare la lunga notte del Cretaceo. Eppure questa fine del mondo, avvenuta 65 milioni di anni fa, ha avuto un ruolo preciso nella nostra fortuna. Ha distrutto le speranze dei dominatori del momento, i grandi rettili, e ha aperto la strada per nuove diversificazioni tra i sopravvissuti, in particolare i mammiferi (decimati soltanto per un terzo) e un ramoscello dei dinosauri che stava dando vita agli uccelli. Si è trattato di una spettacolare e contingente staffetta evoluzionistica, con il testimone affidato a forme viventi che diventeranno i nostri lontani antenati. Noi Homo sapiens, dunque, siamo figli di questa catastrofe orrenda. Dobbiamo essere grati a quel mostro letale di dieci chilometri di diametro che ha tagliato l'atmosfera e ha portato l'inferno sulla Terra. Dovremmo onorarlo nei secoli a venire, perché ha decretato la fine del mondo degli altri, e un nuovo inizio per chi proprio non se l'aspettava.


È ironico pensare che il beneficiario di questa fine del mondo (degli altri) sia oggi così ossessionato dalla fine del mondo (il proprio). Quasi fosse un vizio, abbiamo inflitto la stessa sorte, per nostra mano intenzionale, a milioni di specie viventi, estinte a causa della sempre più ingombrante presenza umana. Quasi fosse un contrappasso per la nostra miopia, ora cominciamo a temere che si possa noi stessi fare la fine dei dinosauri, prima o poi. Ma il senso di colpa e un inveterato antropocentrismo impregnano le umane menti. Così siamo riusciti ad addomesticare anche la fine del mondo, a immaginarcela come il culmine di un disegno, come una rivelazione, come una giusta punizione per chi se la merita (e c'è sempre qualcuno che se la merita), come la realizzazione di un destino già scritto fin dall'inizio. Con la recondita convinzione, sotto sotto, che alcuni ce la faranno e gli eletti daranno battesimo a un nuovo corso. Più consapevoli dei dinosauri e di chi li aveva preceduti in altre colossali estinzioni, noi esorcizziamo la fine del mondo continuando a parlarne, comportandoci voracemente come se fosse dietro l'angolo, sommergendola di significati impropri, deprivandola del suo sottile messaggio, il più radicale e tutto sommato rinfrancante: l'indomabile imprevedibilità della storia naturale, che ha fatto a meno di noi per 3,8 miliardi di anni. 


Telmo Pievani La fine del mondo Guida per apocalittici perplessi, il Mulino, Bologna, 2012, Intersezioni 394 , pag. 184,