Esiste una teoria
secondo la quale se qualcuno scoprisse
esattamente il
motivo di essere dell'Universo e perché esso sia
qui, quello
istantaneamente scomparirebbe e sarebbe sostituito
da qualcosa di
ancora più bizzarro e inspiegabile. Esiste poi
un'altra teoria
secondo la quale tutto questo è già accaduto.
D.
Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, 2000
Il più grande
spettacolo dopo il Big Bang cominciò senza preavviso. In un'epoca primordiale
che nessuno ricorda, un bolide roccioso di dieci chilometri di diametro si
affacciò dallo spazio profondo e piombò in mezzo al mare, al largo della costa
dello Yucatán. Una scia di fuoco illuminò ogni cosa. Fu come se milioni di
bombe atomiche scoppiassero in un sol colpo, deflagrando nella più potente
esplosione di tutti i tempi. In un battito di ciglia un'enorme palla di luce,
più incandescente del Sole, vaporizzò l'oceano, aprendosi un cratere di 180 km
di larghezza nella crosta terrestre. La superficie del pianeta si increspò e il
fronte sismico fece più volte il giro del globo, innescando terremoti in ogni
dove. L'onda d'urto si propagò a 30 km al secondo radendo al suolo in pochi
attimi un'area grande come il Nord America. Tsunami colossali si alzarono per
centinaia di metri, si misero a correre in tutte le direzioni e nelle ore
successive si abbatterono sulle coste fino in Europa e in Africa. Le correnti
d'aria impazzite fomentarono enormi uragani. L'atmosfera fu squarciata
dall'alto e centinaia di trilioni di roccia fusa furono scagliati di rimbalzo
nei suoi strati più esterni. I cieli si addensarono di rosso fulvo, di
fuliggine e cenere. Ben presto le polveri velenose impregnarono l'aria e
schermarono la luce del Sole in ogni angolo della Terra. Il primo trauma durò
poco perché dal buio ridiscese ben presto un inferno di fiamme. Le rocce
schizzate in atmosfera nell'esplosione furono di nuovo attratte verso il basso
e cominciarono a piovere, infuocate, sulla superficie, disseminandola di
incendi devastanti. Questi aumentarono ulteriormente la quantità di fumo e di
polveri nell'aria. Un quarto della materia vivente venne ridotta in cenere.
Foreste, boschi e praterie furono carbonizzati su tutti i continenti. Poi, con
l'oscurità, il freddo prese il sopravvento. Le temperature medie del pianeta
scesero di 15 gradi centigradi, come in una velocissima era glaciale. Le piogge
acide avvelenarono gli oceani, estinguendo un'enorme quantità di specie marine.
Le piante soffocarono e la fotosintesi fu ridotta al minimo. I grandi erbivori
sopravvissuti all'impatto morirono progressivamente di fame, trascinando con sé
gli equilibri delle catene alimentari globali. I ghiacci avanzarono, unendosi
agli effetti mefitici dello zolfo e dell'anossia. Dopo anni di improvviso
inverno glaciale — un tetro inverno cosmico — le polveri lentamente si
posarono, ma non vi fu sollievo per i vivi perché ebbe inizio una subdola
primavera ultravioletta. Il Sole colpiva ora inesorabilmente la superficie
senza più la protezione dello strato di ozono, lacerato dagli effetti delle
sostanze chimiche immesse in atmosfera dall'impatto. La carne viva degli
organismi fu esposta a radiazioni letali e scottata nuovamente dal calore più
insopportabile. Il fuoco e il freddo si alternarono per secoli, come piaghe
bibliche. Nulla fu mai come prima. Più della metà delle specie, di ogni ordine
e fattezza, dal plancton al dinosauro, non sopravvisse alla maledizione piovuta
dal cosmo. Perché il mondo tornasse a respirare, ci vollero migliaia, forse
milioni, di anni.
Dinanzi a uno
scenario di questo tipo [McGuire 2003], è stupefacente che una qualche forma di
vita sia riuscita a superare la lunga notte del Cretaceo. Eppure questa fine
del mondo, avvenuta 65 milioni di anni fa, ha avuto un ruolo preciso nella
nostra fortuna. Ha distrutto le speranze dei dominatori del momento, i grandi
rettili, e ha aperto la strada per nuove diversificazioni tra i sopravvissuti,
in particolare i mammiferi (decimati soltanto per un terzo) e un ramoscello dei
dinosauri che stava dando vita agli uccelli. Si è trattato di una spettacolare
e contingente staffetta evoluzionistica, con il testimone affidato a forme
viventi che diventeranno i nostri lontani antenati. Noi Homo sapiens, dunque,
siamo figli di questa catastrofe orrenda. Dobbiamo essere grati a quel mostro
letale di dieci chilometri di diametro che ha tagliato l'atmosfera e ha portato
l'inferno sulla Terra. Dovremmo onorarlo nei secoli a venire, perché ha
decretato la fine del mondo degli altri, e un nuovo inizio per chi proprio non
se l'aspettava.
È ironico
pensare che il beneficiario di questa fine del mondo (degli altri) sia oggi
così ossessionato dalla fine del mondo (il proprio). Quasi fosse un vizio,
abbiamo inflitto la stessa sorte, per nostra mano intenzionale, a milioni di
specie viventi, estinte a causa della sempre più ingombrante presenza umana.
Quasi fosse un contrappasso per la nostra miopia, ora cominciamo a temere che
si possa noi stessi fare la fine dei dinosauri, prima o poi. Ma il senso di
colpa e un inveterato antropocentrismo impregnano le umane menti. Così siamo
riusciti ad addomesticare anche la fine del mondo, a immaginarcela come il
culmine di un disegno, come una rivelazione, come una giusta punizione per chi
se la merita (e c'è sempre qualcuno che se la merita), come la realizzazione di
un destino già scritto fin dall'inizio. Con la recondita convinzione, sotto
sotto, che alcuni ce la faranno e gli eletti daranno battesimo a un nuovo
corso. Più consapevoli dei dinosauri e di chi li aveva preceduti in altre
colossali estinzioni, noi esorcizziamo la fine del mondo continuando a
parlarne, comportandoci voracemente come se fosse dietro l'angolo,
sommergendola di significati impropri, deprivandola del suo sottile messaggio,
il più radicale e tutto sommato rinfrancante: l'indomabile imprevedibilità
della storia naturale, che ha fatto a meno di noi per 3,8 miliardi di anni.
Telmo Pievani La fine del mondo Guida per apocalittici
perplessi, il Mulino, Bologna, 2012, Intersezioni 394 , pag. 184,