Dicono che certi batteristi rock degli anni Settanta
si rinchiudessero intere settimane nei magazzini della Zildian o della Paiste
per scegliere i piatti migliori. Mi immagino, che so, quel matto di John Bonham
(Led Zeppelin) o Ginger Baker (Cream) giornate a provare i piatti, a farli
cantare per scegliere la fusione più riuscita, quella dal suono perfetto. Poi,
alla fine, tutto viene scartato, rimane solo il piatto, il suono.
Come i batteristi anche Goffredo Parise con i Sillabari è andato alla
ricerca del suono migliore, perfetto, nel quale la realtà si compie. Lo ha
fatto dopo un lungo percorso, anzi una complessa peregrinazione che lo ha
portato ad “ascoltare” tanti suoni, dai romanzi non neorealisti in epoca
neorealista, ai grandi reportages dai mondi socialmente e politicamente
più impervi del pianeta, alle polemiche civili in cui, se partecipavi, farsi
male era un rischio concreto, sino a giungere all’individuazione delle essenze
quasi minerali dei Sillabari. Quando uscì il primo, 1972, era un’epoca
di turbolenze in ogni piano della realtà, ma un giorno, scrive Parise, “nella
piazza sotto casa, su una panchina, vedo un bambino con un sillabario. Sbircio
e leggo: l’erba è verde. Mi parve una frase molto bella e poetica nella
sua semplicità ma anche nella sua logica. C’era la vita in quel l’erba è
verde, l’essenzialità della vita e anche della poesia. Pensai a Tolstoj che
aveva scritto un libro di lettura non soltanto per bambini e poiché vedevo
intorno a me molti adulti ridotti a bambini, pensai che essi avevano scordato
che l’erba è verde,che i sentimenti dell’uomo sono eterni e che le
ideologie passano”. Di qui nascono quelle piccole prose fatte di versi, tratti
lievi e nitidissimi, con cui Parise racconta le emozioni più complesse e
sottili. È il suono perfetto che si produce quando percuote il mondo, toccandolo
o sfiorandolo appena, e ne fa scaturire una sorta di sintesi assoluta. Come
alla ricerca dell’armonico naturale, sempre per restare nella metafora
musicale, quel suono che scaturisce dallo sfiorare appena la corda della
chitarra con la mano sinistra, un suono lungo e calmante, usato spesso come
conclusivo e definitivo, “un amalgama in cui al suono fondamentale se ne
aggiungono altri più acuti e meno intensi” (Wikipedia).
Quando fu pubblicato Sillabario n.1 l’autore fu
maltrattato, agli intellettuali “in lotta” lui appariva come un inutile gagà,
un personaggio dei romanzi di Maugham, uno che amava le lenzuola di seta del
Ritz di Parigi. E lo diceva pure. E scriveva di cose evanescenti, sfumate,
impercettibili, di sentimenti, di atmosfere inutili e vaghe. I suoi personaggi
e i paesaggi in cui si muovevano erano dei disadorni un uomo, una
donna, un bambino, una città italiana, una località di
mare, dei campi, i tempi erano un giorno, un inverno.
D’altro canto lo aveva dichiarato, il suo programma “non politicizzato” era di
“scrivere dei racconti e dei libri possibilmente buoni, fare con estrema
coscienza e sincerità e amore il mio lavoro. Tendere sempre con tutte le mie
forze alla tanto disprezzata ‘poesia’, cioè a quella parte ‘alta’ dell’uomo in
cui credo e su cui ho fondato la mia vita, perché essa è servita a lenire tanti
dolori nella passata e presente storia dell’uomo” (“Il Gazzettino”,
31.10.1972).
È molto probabile che diversi tra quegli intellettuali
che “militavano” leggessero Parise sotto le coperte per non farsi vedere da
nessuno, è possibile che quel richiamo alle cose fondamentali degli uomini non
sfuggisse proprio a tutti, non è pensabile che un tale amore per le delicatezze
degli esseri umani passasse e andasse così stupidamente perduto. Ma non si
poteva dire, non si poteva sostenere, quella di cui parlava Parise semmai era
la strategia, il fine, il che cosa a cui tendere, ma in quel momento,
nel fuoco sociale dei Settanta, era la tattica a dominare, il come
“battere il nemico di classe”. C’è voluto almeno un decennio prima che i Sillabari
fossero capiti. Così Giovanni Giudici, un poeta, non per caso, di Sillabario
n. 2,“testo non labile in un’era dominata dalla labilità”, diceva: “Niente
[...] è più ‘bello’ di una scrittura (e quella di Parise mi sembra tale) che
nel mare della lingua umiliata dalla chiacchiera, mortificata dalla retorica,
ridicolizzata dalla muscolarità dei mattatori, riesca a carpire, a ‘tradurre’,
a incidere nel cuore del lettore il segno delle sue pur lievissime unghiate.
Quanto meno pretende di ‘dire’, anzi ‘stradire’, tanto più essa ‘è’”
(“L’Espresso”, 27.6.1982).
Tratto da Moretti e
Parise, cercatori di suoni di Mauro Portello
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