Calvino è
l’unico scrittore italiano della seconda metà del XX secolo a essere passato
dall’età giovanile direttamente alla vecchiaia, saltando a piè pari l’età
adulta, così che l’idea che abbiamo conservato di lui, a quasi trent’anni dalla
scomparsa, è quello di un puer senex,
un saggio dall’intramontabile aspetto giovanile. Nel lasso di tempo che è
trascorso da quel giorno del 1985, in cui fu ricoverato nell’antico ospedale
di Siena, per essere operato alla testa, lui che possedeva una delle
teste più sottili e fini della cultura europea, è accaduto di tutto o quasi.
Quasi niente
però che lo scrittore ligure non avesse già previsto, dalla peste linguistica
dell’italiano scritto, corrispondete alla decadenza culturale e sociale del
Paese, all’avvento del software informatico o al trionfo dell’immateriale. Nei
trent’anni che ci separano dalla sua improvvisa dipartita abbiamo potuto
registrare ciò che era vivo e ciò che era invece caduco nella sua opera:
Calvino no, Calvino sì, a seconda dei cambiamenti di prospettiva e di orizzonte
culturale, e persino politico. Una polemica che è continuata anche per qualche
tempo, ma che adesso è finita nella poubelle, la pattumiera del è-stato,
insieme ai fogli accartocciati di cui Calvino stesso raccontava in un proverbiale
testo sulla dissipazione dello scrivere, e a tante altre cose del nostro
passato prossimo.
Ma come
sarebbe stato Calvino novantenne? Nel 1981 Alberto Sinigaglia era andato a
bussare alla sua porta per chiedergli previsioni per l’anno 2000, memorabile intervista
ora raccolta in quel tesoro di riflessioni, oltre che di autobiografie, che è Sono nato in America. Interviste
1951-1985, curato da Luca Baranelli e introdotto da Mario Barenghi
(Mondadori 2012). Non ancora sessantenne, Calvino rispondeva alla domanda se ci
sarebbe ancora stata la vecchiaia nel 2000, ribadendo che la diversità tra i
vecchi e i giovani, il loro rapporto, “è uno degli aspetti che meglio
definiscono una civiltà”. Arrivava a ipotizzare che nel cambio di millennio i
vecchi potessero risultare i soli giovani e i giovani si sentissero già come
vecchi. Evocava le città per anziani costruite in America come un esempio
deleterio di separazione tra le generazioni.
La corsa
alla giovinezza, la giovinezza prolungata di adulti e anziani, era già cominciata
all’inizio degli anni Ottanta, ma la preoccupazione prevalente di Calvino non
era anagrafica; gli stava a cuore la trasmissione dell’esperienza. Parlando
come un suo personaggio, il signor Palomar, spiegava a Sinigaglia il paradosso:
“La cosa che potrebbe avvicinare di più le generazioni è il confronto degli
errori compiuti, ma è una esperienza che non si può trasmettere perché ogni
generazione deve fare i suoi errori.
Quello che
distingue di più è la parte positiva che ogni generazione porta con sé, ma
questo è per sua natura incomunicabile, perché appena si cerca di enunciarlo
diventa retorica”. Oggi che il paese è guidato da un Presidente coetaneo di
Calvino, un quasi novantenne, che il nuovo papa è un quasi ottantenne, che in
molti posti chiave dell’establishment ci sono ultrasettantenni (con l’eccezione
del nuovo presidente del Consiglio, insidiato qualche giorno fa da un
ultrasettantenne), è divertente leggere cosa dice del sé futuro, di anziano, lo
scrittore ligure: “Chissà che la migliore soluzione non sia diventare un
vecchio molto antipatico. Io credo che ci potrei riuscire senza molto sforzo,
magari anche accentuando i caratteri di repulsività della vecchiaia, diventando
un vecchio astioso, malefico, un po’ ripugnante, un po’ bieco. In questo modo
potrei provocare nei giovani una reazione di bellezza, pulizia, di allegria.
Forse
sarebbe l’unico modo di raggiungere un risultato socialmente positivo, che
nessuna pedagogia può sognarsi d’ottenere”. La pedagogia, come si capisce
leggendo lo straordinario testo autobiografico Sono stato stalinista anch’io? (1979), è
uno dei rovelli di Calvino, scrittore ben poco scolastico, ma molto preoccupato
della trasmissione del sapere, del saper fare, del già fatto, tra adulti e
ragazzi, tra giovani e vecchi. Lui che aveva ipotizzato in un romanzo non
finito (La decapitazione
dei capi) l’uccisione rituale dei capi politici appena invecchiano,
non poteva che constatare il fatto che le grandi potenze fossero allora
governate da vecchi, così come in Italia prevalesse una eccessiva lentezza nel
rinnovo dei ceti dirigenti.
Il suo
ideale, enunciato in vista dell’anno 2000, era quello di un giusto, eppure
difficile equilibrio, tra “potere di repressione” e “potere di liberazione”,
perché l’educazione, a suo dire, ha come scopo proprio quel potere di liberarsi
dalle autorità. Ma senza autorità non c’è società. L’aspirante vecchio Calvino
proponeva al suo intervistatore la figura di un uomo colto del 2000 che sa
cucinare, pulire la casa e fare la calza; poi si congedava proponendo tre
talismani per il nuovo millennio: imparare molte poesie a memoria, anche da
vecchi; preferire le cose che richiedono sforzo, diffidare della facilità;
“sapere che tutto quello che abbiamo può esserci tolto da un momento
all’altro”.
Un bel
programma per il futuro, il suo stesso futuro. Anche se Calvino non è diventato
vecchio, quel vecchio antipatico che si proponeva paradossalmente, possiamo
festeggiare i suoi virtuali novanta segnandoci bene le tre chiavi suggerite per
il prossimo millennio. In particolare l’ultima, molto utile per i tempi che ci
attendono.
Tratto dall’articolo su Domenica 24 del 13-10-2013