MB Hai intitolato il tuo ultimo documentario Case
sparse ma l’elemento più attraente è il sottotitolo «visioni di case che crollano», come può
entrare la visione nel cinema della realtà?
GC Intanto la parola visione ha una tradizione molto
lunga. L’apparizione ha a che fare con la mistica (vengono in mente le sante).
L’uomo adulto che diventa l’imbecille razionale non capisce queste sante che
diventano dei matti. La tradizione della visione va ad esperienze sciamaniche
in Africa o in Asia… Per noi il vedere è diventato un processo meccanico come
se esistesse un puro vedere retinico.
In tutto quello che ci succede possiamo dire che c’è
un modo per poterlo mettere in discorsi, è un processo di concettualizzazione
del mondo ma c’è un altro modo che fa parte della nostra vita che fa parte del
sensitivo, della sensitività.
Nel Timeo gli dei hanno messo la sensibilità
negli uomini, in greco è aisthesis che è la parola da cui deriva
estetica che per noi è la scienza del bello ma originariamente è lo studio di
com’è lo stadio percettivo, il sensibile. Il sensitivo sarebbe questo nostro
tipo di coniugazione con quello che è fuori di noi, un connubio con quello
fuori di noi.
Quel muro è giallo ma il fatto che sia giallo è solo
un modo per metterci d’accordo, il muro non è giallo in sé, tutto il sensitivo
è una nostra forma di accoppiamento con quello che è fuori di noi. Non parliamo
di concetti ma di percetti, qualcosa che è un momento che poi scappa via, non
posso concepire la visione in termini dell’oggettività… Gli antichi dicevano la
vaghezza, il bello era dato dalla vaghezza che sfugge.
La visione richiede che l’uomo sia un po’ disarmato,
se io so già tutto di un dato posto non vedo più niente, il percetto sarebbe
questa nostra copulazione con quello che sta di fuori.