Non
riesco a sciogliere un nodo di silenzio che sento premere dall’inizio
dell’anno. Come se tutta la tensione dei mesi passati (mesi difficili per il
Paese, mesi difficili per la Sinistra, mesi difficili per chi lavora e chi non
lavora, i secondi sempre più numerosi), si sia coagulata in una sorta di
privatissimo smarrimento a cui fa eco la vicinanza a persone care che vivono e
reggono, nel perimetro delle loro vite, tutta l’insufficienza sociale,
economica e sentimentale dei nostri anni.
Persone che fanno i conti spiccioli
della necessità quotidiana di dover reggere assenze sociali sempre più forti,
sempre più intense. Lì dove lo tsunami di un non pensiero collettivo ha
coagulato cumuli di macerie, e non si vedono le ali di alcun Klee a marcare lo
sguardo.
Il
desiderio di fare fuori la collusione della politica al malcostume non sembra,
ad oggi, aver prodotto che insufficienti raggruppamenti che somigliano tanto a
tutto quanto è stato il passato recente, e nel migliore dei casi se ne
allontano senza comprendere che proprio nulla di quanto abbiamo pensato, patito,
sognato e immaginato regge lo scontro con la deflagrazione del capitalismo
dentro se stesso. Il buco nero di una economia che non produce più e la sua
sorellastra, la stella implosa di una alternativa che non comprendiamo come
generare.
Ed
ogni volta che penso, ogni volta che sogno, ogni volta che scrivo e che parlo,
sempre più mi risale dentro la necessaria cautela del pellegrinaggio nelle vite
degli altri, nella speranza di poter trovare un barlume di approdo, un
appiglio, un puntello. Sono persino un po’ stanca di raccogliere storie,
come se volessi almeno intravedere che un’idea di futuro possa essere oggi. Da
qui in avanti.
Si
va per negazioni ed omissioni: si dà sussidio, e non si dà lavoro, si dà lavoro
e non si dà contrattazione, si dà servizio senza nessuna etica del darsi (dove
il riflessivo dovrebbe, potrebbe e saprebbe beneficiare di questo persino per
sé).
Abbiamo
disimparato, credo, molte forme d’amore. L’amore per noi stessi, quando ci
definiamo giovani, non più giovani, occupati, disoccupati, meridionali,
omosessuali, indignati, uomini e donne, confusi. Non riusciamo a dirci nella
nostra unità, temporale e locale. Qui e ora siamo a caccia di categorie da
difendere, in un contesto che cerca appena di sopravvivere sulle spalle di
ognuno. Sempre più centrati sull’odio e sul minimo, non vediamo la bellezza che
riluceva quando si poteva dire “minore" nella bellezza profonda della
potenzialità e vicinanza alla persona di questo aggettivo.
Oggi,
in particolare, penso al personalissimo dolore di un’amica che si è scontrata
per anni (con lucidità, intelligenza, polmoni e cuore) con la necessità di
conciliare la sua attenzione al giusto (al buono, al costruttivo, al
libertario) nel pensare sociale sulla
malattia mentale, con la consapevolezza di come tutto un versante di
pensiero giusto è stato poi disatteso da un tessuto sociale incapace di dare
risorse, pensiero, luoghi e azioni politiche a un fiore nato fra le pieghe
della Legge Basaglia, e calpestato nei fatti da tutto quanto dopo ha agito per
cancellazione e fraintendimento strumentale.
Questa
amica saluta domani una parte della sua vita che è stata dedicata, nell’affetto
dei legami familiari, anche a una personale battaglia di comprensione dei
“confini” che possiamo dare alle cose, facendo un lavoro di pura epistemologia
ogni volta che ha dovuto dialogare con strutture, comprendere indicazioni
normative, confrontarsi con il concetto di limite e di distanza nella
vicinanza. Lo ha fatto con l’intelligenza tutta femminile di chi conosce e
svela l’ossimoro di una sanità malata e di una società isolante, di una
estraneità consanguinea che raggela ogni calore e scalda ogni scontento
inverno.
Allora
ecco, la prima cosa di cui voglio scrivere oggi, ad inizio d’anno, è per
salutare questa forma di amorosa intelligenza e trafitta com-passione, perché
sono certa che di futuro e di oggi ne avremmo molti di più se ci fossero più
signore della riflessione, più maternali carichi di provvidenza che sanno
essere e andare oltre il confine stretto del bisogno personale.
Guardare
a sé mentre si guarda l’altro, e poi dall’altro andare oltre, e ritornare. Un
flusso. Una coscienza. Una amorosa conoscenza. Il mio diario è oggi qui per S.
ed S., per tutto quello che ho imparato nel conoscerne la storia. Ci vengo con
la Rosa bianca, a salutare tuo fratello. Perché è il tuo amore che fa
rivoluzione, tutti i giorni un po’.
Nerina Garofalo , Facebook 10 gennaio
2014 alle ore 13.02